Quando arrivi a Tordibetto rischi di non accorgertene: l’occhio, abituato a tanta città, si rilassa e le case, con le loro voci isolate, non ce la fanno ad ammonirti. Ti trovi come in uno spazio sospeso, del quale sfuggono nomi e confini. Agli occhi del mondo, che tutto quantifica e banalizza, sei entrato in un non-luogo: nessun agglomerato, poche insegne, neppure un luogo di ritrovo, eccetto quelli che la natura spontaneamente offre. Allora, se non sei di queste parti, apri il navigatore, sperando in un ultimo, provvidenziale aiuto, ma la strada che stai percorrendo rischi che non sia neanche tracciata. Lo sguardo allora si allunga, dalla piana, verso i luoghi d’altura e ti ritrovi, anche qui, in un tempo lontano, dove le torri e le mura del castello infondono forza, sicurezza, ed esprimono un senso di nobile austerità. Sali ancora, tra declivi di ulivi e filari di alte querce, e raggiungi Beviglie. Nuove mura, ancora più antiche, rafforzano quel sentimento di difesa verso gli estranei, ma non esistono, neanche qui, portoni e accessi vietati: solo pietre, che il sole riscalda di un colore ocra, caldo e avvolgente come quello che, ancora, lega gli abitanti tra loro. Quando sali tra queste colline ti imbatti in un passato che si vuole dimenticato e che invece, chissà fino a quando, è ancora capace di farsi storia.
Il ragazzo della via Gluck – Adriano Celentano