23 Marzo 2025

Sentire come allora. Lorenzo Pataro (1998-2025)

Claudio Volpi
Sentire come allora. Lorenzo Pataro (1998-2025)
Carlo Levi 'Ragazzo Lucano', 1935, Musei Nazionali di Matera.

Una voce poetica limpida e carica di promesse, purtroppo stroncata troppo presto. “La poesia non è scrivere andando a capo, anche se tutte le poesie fanno così, i versi hanno del bianco, prima e dopo.  È il silenzio da cui arrivano le parole, il silenzio cui ci riconsegnano. Stupiti e malinconici, come capitava leggendo Lorenzo Pataro, nato a Castrovillari, Cosenza, nel 1998, morto di recente all’improvviso” (L. Mastrantonio). Il poeta Franco Arminio, legato al giovane collega da un rapporto di amicizia e di stima, gli tributa un lungo post di addio, pubblicando la poesia che pubblichiamo anche noi oggi per ultima, che aveva ricevuto domenica 16 febbraio, appena tre giorni prima di morire, che assume   ora quasi i toni di una premonizione sinistra e dolce. Dopo il funerale, la mattina del 21 Febbraio, Arminio è tornato a scrivere, menzionando i genitori e il fratello di Lorenzo: “Al cimitero per le condoglianze ci sono solo loro, Antonella, Fernando e Giuseppe. Parliamo un poco, sanno che Lorenzo mi aveva scritto pochi giorni fa. Ne parlo anche con le ragazze che hanno letto i suoi versi in piazza. Parliamo del destino che potranno avere le parole del poeta, destino che sarà più lungo della sua vita. Lorenzo aveva un’aria gentile, quell’aria gentile che oggi c’è in tutto il paese. Da lontano si vedono le cime rotonde del Pollino pieno di neve. È ancora inverno ma c’è un bel tepore. In un messaggio Lorenzo mi aveva scritto che era stato un inverno duro ma confidava nella primavera. L’inverno si è chiuso addosso alla sua vita. Forse oggi, con questo sole, le cose sarebbero andate diversamente”.

 

1

La tua bocca mi bacia

ed è nido in cui covo la ferita,

mi aggrappo alla tua voce

che è sottile come un ago,

mi arrampico al tuo petto,

percorro tutto il bosco

in cui cresce il tuo respiro,

il legno che brucia e mi disseta,

mi dà aria

che è buona per il cuore,

gli dà forma,

lo contengo

sul palmo della mano,

gli faccio la guardia nottetempo,

poi mi perdo

nell’oceano degli occhi,

profondi misteriosi

e antichi come il fuoco,

la tua bocca mi bacia

ed è il nido

da cui volo verso il mare.

 

 

2

Per ritornare al grembo

per prima cosa

chiudersi a gomitolo

tra le coperte

come in un gioco eterno

dimenticare

le forme i colori gli spazi

abbandonarsi come

a un abbraccio

guardarsi da fuori

senza riconoscersi

farsi chiudere gli occhi

dal silenzio,

pungente

respirare piano,

pianissimo per

non svegliarsi,

inondare la stanza d’acqua

galleggiare senza peso,

come aquiloni

attaccarsi con grazia il cordone

senza farsi male

dimenticare

fingersi morti

per non essere attaccati

sentire e non sentire

scalciare per sentirsi vivi

ritrovarsi nudi,

senza il bisogno di coprirsi

imparare a respirare

senza essere ascoltati.

 

3

E se fossimo solo

un’ipotesi di volo,

un’istruzione leggera

all’apertura delle ali,

se fossimo solo

il capovolgimento,

la conversione

di un altrove

in cui vive

la nostra parte divisa,

e se un giorno

ci ricongiungeremo

con la coincidenza esatta

della  felicità,

e se allora forse

sogno e realtà

arrivassero finalmente

a coincidere,

e se questa fosse solo

una possibilità da spartire

con l’altro,

da scambiare

come in un patto?

E se riuscissimo

a non rifletterci più,

se riuscissimo a valicare

il limite dello specchio,

del cielo, della porta,

riusciremmo a ritrovarci

ancora interi,

veri come una volta?

 

4

Siamo stati cenere

di incendi causati

dai nostri stessi

baci infiammati.

 

Rinasceremo vento

per disperdere i frammenti,

ci bruceremo ancora

per farne tramonti.

 

 

5

Sentire come allora.

Bambini-parco-giochi.

Sentire la vita come allora

e in un punto preciso,

dentro al petto.

Chiaro nitido pungente.

Accorgersi del noto.

Lo spazio tra le cose,

tra il piede che si alza nella corsa

e il piede-ancora che tiene.

Polvere, il radioso nello spazio

tra le dita.

Sentire un freddo

che è lontano, acuminato.

Universo  che semina nel petto

qualcosa di antico e benedetto.

In cerchio si osserva

la ferita al ginocchio

del bambino, sangue e pelle,

il suo frantumo.

Sentire come allora.

Farsi tana e nascondersi

era un modo per lasciare

il mondo vuoto,

farsi mondo nel mondo

e nascondersi nel vuoto

lasciato dalle cose.

Qualcuno ci cercava.

E noi acquattati come i morti.

In attesa.

Trattenendo il respiro come loro.

 

6

Terramadre. Terracarne.

Terracielo.

Tornare a questa terra

come a un grembo,

a una madre che promette

e rassicura.

Avere la pazienza antica

del pastore

che ritorna nella sera

col sudore benedetto dai passanti

e sorride come fosse

solo quello il suo mestiere.

Tornare alla terra

e sentire che c’è un corpo millenario

di storie di voci di leggende

a mescolarsi e sentire

in quell’incanto

tutto il bene del mondo

a germogliare come un seme.

Tornare alla terra e sentire

che i calli sono solo la preghiera,

poi  viene il raccolto

ed è tutta una festa

nelle case di chi resta

a custodire l’azzurro primitivo

dei paesi,

il fuoco nei camini

amico dei ricordi,

una nuova resistenza

nei secoli a venire.

 

Tornare alla terra

come fosse una promessa

fatta agli avi,

tornare alla terra

per renderli immortali.

 

Tornare a far brillare

questa terra,

come a mettere un sigillo

o una fiamma di speranza

che rimanga,

che renda più vivo

persino l’abbandono,

il deserto lasciato

dal progresso e la sua scia

 

 

 

 

 

Claudio Volpi

Nato ad Assisi, dove vive e lavora. Laureato in Lettere Moderne, si occupa di Arte e Antiquariato, ha una Galleria D’Arte nel centro storico della città. Dagli anni ottanta ha pubblicato diverse raccolte di poesie, l’ultima quest’anno con il volume “Voci Versate”, Casa Editrice Pagine Roma.

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