Una voce poetica limpida e carica di promesse, purtroppo stroncata troppo presto. “La poesia non è scrivere andando a capo, anche se tutte le poesie fanno così, i versi hanno del bianco, prima e dopo. È il silenzio da cui arrivano le parole, il silenzio cui ci riconsegnano. Stupiti e malinconici, come capitava leggendo Lorenzo Pataro, nato a Castrovillari, Cosenza, nel 1998, morto di recente all’improvviso” (L. Mastrantonio). Il poeta Franco Arminio, legato al giovane collega da un rapporto di amicizia e di stima, gli tributa un lungo post di addio, pubblicando la poesia che pubblichiamo anche noi oggi per ultima, che aveva ricevuto domenica 16 febbraio, appena tre giorni prima di morire, che assume ora quasi i toni di una premonizione sinistra e dolce. Dopo il funerale, la mattina del 21 Febbraio, Arminio è tornato a scrivere, menzionando i genitori e il fratello di Lorenzo: “Al cimitero per le condoglianze ci sono solo loro, Antonella, Fernando e Giuseppe. Parliamo un poco, sanno che Lorenzo mi aveva scritto pochi giorni fa. Ne parlo anche con le ragazze che hanno letto i suoi versi in piazza. Parliamo del destino che potranno avere le parole del poeta, destino che sarà più lungo della sua vita. Lorenzo aveva un’aria gentile, quell’aria gentile che oggi c’è in tutto il paese. Da lontano si vedono le cime rotonde del Pollino pieno di neve. È ancora inverno ma c’è un bel tepore. In un messaggio Lorenzo mi aveva scritto che era stato un inverno duro ma confidava nella primavera. L’inverno si è chiuso addosso alla sua vita. Forse oggi, con questo sole, le cose sarebbero andate diversamente”.
1
La tua bocca mi bacia
ed è nido in cui covo la ferita,
mi aggrappo alla tua voce
che è sottile come un ago,
mi arrampico al tuo petto,
percorro tutto il bosco
in cui cresce il tuo respiro,
il legno che brucia e mi disseta,
mi dà aria
che è buona per il cuore,
gli dà forma,
lo contengo
sul palmo della mano,
gli faccio la guardia nottetempo,
poi mi perdo
nell’oceano degli occhi,
profondi misteriosi
e antichi come il fuoco,
la tua bocca mi bacia
ed è il nido
da cui volo verso il mare.
2
Per ritornare al grembo
per prima cosa
chiudersi a gomitolo
tra le coperte
come in un gioco eterno
dimenticare
le forme i colori gli spazi
abbandonarsi come
a un abbraccio
guardarsi da fuori
senza riconoscersi
farsi chiudere gli occhi
dal silenzio,
pungente
respirare piano,
pianissimo per
non svegliarsi,
inondare la stanza d’acqua
galleggiare senza peso,
come aquiloni
attaccarsi con grazia il cordone
senza farsi male
dimenticare
fingersi morti
per non essere attaccati
sentire e non sentire
scalciare per sentirsi vivi
ritrovarsi nudi,
senza il bisogno di coprirsi
imparare a respirare
senza essere ascoltati.
3
E se fossimo solo
un’ipotesi di volo,
un’istruzione leggera
all’apertura delle ali,
se fossimo solo
il capovolgimento,
la conversione
di un altrove
in cui vive
la nostra parte divisa,
e se un giorno
ci ricongiungeremo
con la coincidenza esatta
della felicità,
e se allora forse
sogno e realtà
arrivassero finalmente
a coincidere,
e se questa fosse solo
una possibilità da spartire
con l’altro,
da scambiare
come in un patto?
E se riuscissimo
a non rifletterci più,
se riuscissimo a valicare
il limite dello specchio,
del cielo, della porta,
riusciremmo a ritrovarci
ancora interi,
veri come una volta?
4
Siamo stati cenere
di incendi causati
dai nostri stessi
baci infiammati.
Rinasceremo vento
per disperdere i frammenti,
ci bruceremo ancora
per farne tramonti.
5
Sentire come allora.
Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora
e in un punto preciso,
dentro al petto.
Chiaro nitido pungente.
Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose,
tra il piede che si alza nella corsa
e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita.
Sentire un freddo
che è lontano, acuminato.
Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva
la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle,
il suo frantumo.
Sentire come allora.
Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare
il mondo vuoto,
farsi mondo nel mondo
e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose.
Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti.
In attesa.
Trattenendo il respiro come loro.
6
Terramadre. Terracarne.
Terracielo.
Tornare a questa terra
come a un grembo,
a una madre che promette
e rassicura.
Avere la pazienza antica
del pastore
che ritorna nella sera
col sudore benedetto dai passanti
e sorride come fosse
solo quello il suo mestiere.
Tornare alla terra
e sentire che c’è un corpo millenario
di storie di voci di leggende
a mescolarsi e sentire
in quell’incanto
tutto il bene del mondo
a germogliare come un seme.
Tornare alla terra e sentire
che i calli sono solo la preghiera,
poi viene il raccolto
ed è tutta una festa
nelle case di chi resta
a custodire l’azzurro primitivo
dei paesi,
il fuoco nei camini
amico dei ricordi,
una nuova resistenza
nei secoli a venire.
Tornare alla terra
come fosse una promessa
fatta agli avi,
tornare alla terra
per renderli immortali.
Tornare a far brillare
questa terra,
come a mettere un sigillo
o una fiamma di speranza
che rimanga,
che renda più vivo
persino l’abbandono,
il deserto lasciato
dal progresso e la sua scia