“Nazim Hikmet morì a Mosca il tre giugno 1963, verso le nove del mattino… Lì per lì non se ne accorse nessuno. Era già morto da mezz’ora quando lo trovarono accasciato accanto alla porta che dà sul pianerottolo, appoggiato allo stipite, in un atteggiamento quasi naturale. La porta era socchiusa. Forse stava uscendo per prendere la posta nella cassetta dell’atrio, o per fare due passi al sole. Il viso sembrava tranquillo. L’infarto era stato folgorante, e il cuore era già stanco. Il primo infarto l’aveva colpito vent’anni prima, nel carcere di Bursa, in Anatolia, dove passò tredici anni, oltre a diversi altri anni in altri carceri… Gli dispiaceva morire. Ma siccome morire è indispensabile, si augurava una morte come questa, rapida e decisa. Fu composto nella bara aperta, con molti fiori e molti onori. Rimase così col viso scoperto e col suo abito migliore, secondo la costumanza russa, fino a che non fu calato nella fossa… Quasi quarant’anni prima, il ventidue gennaio 1924, Hikmet aveva montato la guardia accanto al volto scoperto di Lenin, che era stato per lui il padre grande e favoloso, assai più reale del pascià dal quale era nato, in un sontuoso palazzo di Salonicco, ai tempi dell’impero ottomano. Hikmet aveva sessant’anni e li portava assai bene, salvo la malattia di cuore, che non appariva; anzi, gli dava quel colorito fresco e rosato che hanno spesso i cardiopatici. Era un uomo bello e amabile, che si muoveva con grazia e vivacità, e parlava con gli altri nel modo più estroso e diretto. Era un grande poeta e un combattente assai valoroso, e piaceva alle donne. Ma questo eccesso di doti aveva come correttivo un ingualcibile candore, una capacità di meraviglia, di fiducia e di rispetto verso l’’umanità e verso le cose. Non vi era in lui ombra di cinismo o di acidità; ma solo, qualche volta, di egoismo e di leggerezza. Era appassionatamente legato alla sua terra turca, ma non meno per sua scelta che per destino. La mescolanza di razze, di culture e di esperienze diversissime ne avevano fatto un essere ricco e originale, levigato alle discipline ma sdegnoso di servire. Non si piegava ai compromessi, nemmeno a quelli che in generale, con sottile opportunismo, definiamo necessari. Questo prigioniero minacciato per anni di impiccagione, questo poeta che non ha mai trovato un editore nel suo paese, questo malato che poteva morire da un momento all’altro, ha vissuto come un uomo libero, padrone sempre di se stesso e della sua condizione consapevolmente affrontata” (Joyce Lussu). Ecco, speriamo di avervi incuriosito su questo splendido poeta e uomo, di cui abbiamo già presentato altre poesie che potete andarvi a rileggere nella rubrica; qui ne presentiamo un ‘altra in cui ci siamo imbattuti per caso rovistando tra le nostre carte e libri così disordinati, dedicata a nostro figlio come saluto e augurio dalla sua insegnante di Italiano alla fine del terzo anno della scuola media.
Non vivere su questa terra come un inquilino
Ragazzo mio,
io non ho paura di morire.
Tuttavia, ogni tanto,
mentre lavoro
nella solitudine della notte,
ho un sussulto nel cuore,
saziarsi della vita,
figlio mio,
è impossibile.
Non vivere su questa Terra come un inquilino,
o come un villeggiante stagionale.
Ricorda:
in questo mondo devi vivere saldo
vivere come nella casa paterna.
Credi al grano,
alla terra,
al mare,
ma prima di tutto all’uomo.
Ama la nuvola,
il libro,
la macchina,
ma prima di tutto l’uomo.
Senti in fondo al tuo cuore
il dolore del ramo che secca,
della stella che si spegne,
della bestia ferita,
ma prima di tutto
il dolore dell’uomo.
Godi di tutti i bene terrestri,
del sole,
della pioggia,
della neve,
dell’inverno e dell’estate,
del buio e della luce,
ma prima di tutto
godi dell’uomo.