“È nata in Italia la voce di un poeta nuovo’, così sentenziava Giorgio Caproni recensendo ‘La sabbia e l’angelo’ la prima raccolta di versi Margherita Guidacci, uscita per Vallecchi nel 1946… Quello che appare inamovibile in Guidacci è l’anelito verso l’assoluto. La situazione tipo della sua poesia affonda sì le radici nel tormento dell’esistenza, anzi, in una percezione che si direbbe originaria, leopardiana quasi, del disagio e dell’angoscia che contrassegnano l’umano destino. E però questo travaglio di regola non risulta mai troppo definito, vale a dire ancorato a situazioni e accadimenti puntuali, a scenari determinati. Non c’è quell’albero particolare col suo nome altrettanto particolare, ma ci sono l’albero, ci sono gli alberi; e così il vento, la sabbia, la polvere, il cielo, le nuvole, l’alba, la sera. Tutto sembra ogni volta il trampolino di lancio, che poi magari si rivela un carcere, per guardare più in là, per annichilire il dolore della vita, per redimere la finitudine. La guarigione per lei coincide con la resurrezione, con una speranza che per lei è cristiana” (R. Galaverni)
Apro la mia finestra
Apro la mia finestra,
guardo il cielo
E i grandi alberi d’oro,
che sembrano reggerlo.
Penso a te,
un punto perduto
nella luce
Come son io:
davanti a un cielo,
ad alberi
Che altri un giorno fisseranno,
tentando
Similmente di esprimersi,
lottando
Con le parole,
con la gioia.
Vento e foglie,
Oro denso e memoria,
l’impossibile
Che urge in gola…
Oggi a noi
questo è dato,
Oggi prestiamo
all’universo
il nostro volto effimero.
Simultanee faville,
questo è il momento
del nostro ardere.
Il tuo ricordo
Il tuo ricordo,
sul fondo
della mia solitudine,
ne rivela l’ampiezza
e tuttavia la limita.
Così un canto d’uccello
addolcisce l’immensità
del cielo
e una singola vela
rende umano
il mare.
È come una mancanza di respiro
È come
una mancanza di respiro
e un senso di morire
quando mi stringe improvviso
il desiderio di te
tanto lontano
e nulla può calmarlo,
altro pensiero
non può occuparmi,
tranne il Paradiso
che sarebbe per me
lo starti accanto.
Ma poiché ciò
m’è negato,
più cara,
molto più cara
d’una fredda pace
mi è la stretta indicibile
quasi marchio di fuoco
che proclami ancora
e sempre
quanto sono tua.
A nessun costo
vorrei separarmi
da questo
mio dolore.
La conchiglia
Non a te appartengo
sebbene nel cavo
Della tua mano
ora riposi,
viandante,
Né alla sabbia
da cui
mi raccogliesti
E dove giacqui lungamente,
prima che
al tuo sguardo
si offrisse
la mia forma mirabile.
Io compagna
d’agili pesci e d’alghe
Ebbi vita dal grembo
delle libere onde.
E non odio
nè oblio
ma l’amara tempesta
me ne divise.
Perciò si duole in me
l’antica patria
e rimormora
Assiduamente
e ne sospira
la mia anima marina,
Mentre tu reggi
il mio segreto
sulla tua palma
E stupito
vi pieghi
il tuo
orecchio straniero.
All’ipotetico lettore
Ho messo
la mia anima
fra le tue mani.
Curvale a nido.
Essa non vuole altro
che riposare in te.
Ma schiudile
se un giorno
la sentirai fuggire.
Fa che siano allora
come foglie
e come vento,
assecondando
il suo volo.
E sappi
che l’affetto
nell’addio
non è minore
che nell’incontro.
Rimane uguale
e sarà eterno.
Ma diverse
sono talvolta
le vie da percorrere
in obbedienza
al destino.
Lascia sia il vento
Lascia sia il vento
a completar le parole
che la tua voce
non sa articolare.
Non ci occorrono
più le parole.
Siamo entrambi
Il medesimo silenzio.
Come due specchi,
svuotati d’ogni immagine,
che l’uno all’altro
rendono
un semplice raggio.
E ci basta.