La distruzione della rocca di Assisi è un capitolo minore della competizione tra impero e papato che infiammò i secoli finali del Medioevo. Profittando della vacanza imperiale, nell’aprile 1198 un emissario del papa si era recato ad Assisi per prendere possesso della rocca sveva, ma ne fu impedito da una fazione di assisani e di perugini che si opponevano alla sottomissione della città al pontefice. È probabile che a distruggere la rocca fossero i «boni homines», cioè la nobiltà di origine germanica che sosteneva il dominio del conte Corrado di Urslingen, che aveva le proprie case nella piazza del Mercato e nella contrada di Murorupto nel rione di porta San Giacomo, e che aveva solidi legami con il ceto aristocratico e ghibellino della vicina Perugia. Soltanto in un secondo momento gli «homines populi» si ribellarono ai «boni homines», ne distrussero le case e i castelli del comitato, si dettero una forma di autogoverno comunale e accettarono l’autorità del pontefice. L’anno seguente il console Tancredo fece ricostruire la porta per la quale si andava nella marca anconetana e a memoria dell’evento collocò una lapide sopra un arco montato con le pietre tolte dalla più antica cerchia preromana, nella contrada di porta Perlici. Il seguito della vicenda ha le caratteristiche di un conflitto locale tra due città confinanti e antagoniste. I nobili in fuga cercarono rifugio a Perugia e ne chiesero la cittadinanza, Perugia li accolse come suoi cives e ne difese i diritti contro il comune di Assisi. La discordia interna tra maiores e minores si trasformò in guerra combattuta tra Perugia e Assisi, nonostante che entrambe le cittadinanze avessero nel frattempo riconosciuto l’autorità della Chiesa romana. Nel 1202 o nel 1203 l’esercito assisano e l’esercito perugino si scontrarono a Collestrada sulla riva sinistra del Tevere, dove correva il confine tra i due comitati. Alla battaglia partecipò il giovane Francesco di Pietro Bernardoni, di professione mercante di stoffe, che fu portato prigioniero a Perugia e che riacquistò la libertà dietro il pagamento di un riscatto. Nel novembre 1203 i boni homines rientrati ad Assisi si accordarono con gli homines populi per essere risarciti dei danni subiti nei tumulti del 1198, con la ricostruzione di una casa in città o con il pagamento di una somma in denaro. Nessuna delle due fazioni aveva interesse a ricostruire la rocca in cima al colle. Con l’allontanamento dalla penisola del conte Corrado di Urslingen, nemmeno l’imperatore tedesco aveva questo interesse, sebbene il rientro dei boni homines in città avesse riportato in auge il partito ghibellino. In seguito alla dichiarazione di obbedienza manifestata dagli assisani al messo imperiale Leopoldo, il 29 luglio 1205 l’imperatore Filippo II di Svevia inviò da Ulm un diploma ai consoli di Assisi, nel quale riconosceva «gli usi e le buone consuetudini» praticati in città e ordinava «che in Assisi non si debba ricostruire, di mole maggiore delle già esistenti, nessuna rocca né da nunzio di re o d’imperatore né da loro stessi o da altri fintantoché la Curia manterrà la città d’Assisi secondo l’organizzazione amministrativa comunale, sempre e concordemente salvo evidenti responsabilità dell’organizzazione stessa». Cinque anni dopo, nel 1210, i maiores e i minores stipularono un nuovo patto di pace, che si apriva con il solenne giuramento «che senza comune consentimento non facciano mai patto alcuno col papa o coi nunzi o legati di lui, né con imperatore o re, ovvero coi lor nunzi o legati, né con città o castello, né con maggior persona, ma di comune accordo facciano quanto è da fare ad onore, salute ed aumento del Comune d’Assisi». Nel patto non si parlava più della rocca, ci si preoccupava al contrario «che l’edificazione della nuova chiesa di San Rufino vada innanzi». Per oltre un secolo e mezzo, nessuno sentirà più la necessità di costruire una fortezza in posizione dominante sull’abitato, fino all’ingresso in città del legato papale Egidio Albornoz, che farà rialzare le mura quadrate della rocca sveva e costruirà un possente maschio nel cortile interno, per vigilare dall’alto i movimenti della popolazione e impedire eventuali sommosse.