08 Novembre 2020

Forse un mattino andando

Claudio Volpi
Forse un mattino andando

Oggi ci avviciniamo ad un grandissimo della poesia italiana ed europea, Eugenio Montale (1896-1981). Dopo di lui non è facile fare poesia, la parola raggiunge dei vertici e delle potenzialità quasi inarrivabili. Nella denuncia di una desolata situazione esistenziale, nello scavo degli oggetti e delle forme della realtà come allucinante simbologia della condizione umana, si è fatto voce unica dell’uomo contemporaneo. I suoi attacchi meravigliosi: ‘Il vento che stasera suona attento; ‘Esterina, i ventanni ti minacciano’; ‘Non chiederci la parola che squadri da ogni lato.’ ‘Meriggiare pallido e assorto’ ‘Spesso il male di vivere ho incontrato’ ‘La speranza di pure rivederti’ ‘Lo sai: debbo riperderti e non posso’, ‘Non recidere forbice quel volto’, e molti altri. Le sue celebri e memorabili raccolte: da ‘Ossi di Seppia’,  con la sua negatività e corrosione critica dell’esistenza, coincidente con la natura del paesaggio ligure, una pietra miliare della lirica moderna, alle ‘Occasioni’ (1939), dove troviamo una larga e indiretta pietà, un’acuta chiaroveggenza sui fatti della vita, tale da superare lo schermo degli oggetti, ma spesso arrendevole alla loro possibilità di esistere fino a diventare amorosa veggenza e acuta chiaroveggenza, con incisività dello stile e forza evocativa pazzesche,soprattutto nei simboli e nei significati delle immagini e delle parole,rivelando attraverso il proprio linguaggio aperto e colloquiale, carico di esperienza letteraria, tutte le risorse di poesia che il mondo moderno poteva racchiudere;’La Bufera e altro’ (1956), uscito diversi anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, di cui il libro è il diario sofferto e allucinato, dove tra brevissimi attimi di luce e lunghi momenti di buio assoluto si gioca il destino dell’uomo,  fino a ‘Satura’(1971), dove l’antico male di vivere si chiama adesso fastidio, alienazione , noia. Nel dopoguerra si consolida il prestigio di Montale: oltre alla sua statura di poeta, si celebra in lui l’intellettuale restio al compromesso ed alla retorica. La nomina a senatore a vita nel 1967 ne suggella questa esemplarità. Fin al 1948 è a Milano, dove è redattore del Corriere Della Sera, ed esercita il mestiere di giornalista con grande dedizione. Il premio Nobel assegnatogli nel 1975 consacra definitivamente a livello mondiale il poeta del’Male di vivere’, quella sua essenzialità espressiva rivelatasi sin dalle prime poesie.

In Limine

Godi se il vento ch’entra nel pomario
Vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario.

Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell’eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.

Un rovello è di qua dall’erto muro.
Se procedi t’imbatti
Tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.

Cerca una maglia rotta nella rete
Che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l’ho pregato, ora la sete
Mi sarà lieve, meno acre la ruggine…

La farandola dei fanciulli sul greto

La farandola dei fanciulli sul greto
Era la vita che scoppia dall’arsura.
Cresceva tra rare canne e uno sterpeto
Il cespo umano nell’aria pura.

Il passante sentiva come un supplizio
Il suo distacco dalle antiche radici.
Nell’età d’oro florida sulle sponde felici
Anche un nome, una veste , erano un vizio.

Il Balcone

Pareva facile giuoco
Mutare in nulla lo spazio
Che m’era aperto, in un tedio
Malcerto il certo tuo fuoco.

Ora a quel vuoto ho congiunto
Ogni mio tardo motivo,
sull’arduo nulla si spunta
l’ansia di attenderti vivo.

La vita che dà barlumi
È quella che tu sola scorgi.
A lei ti sporgi da questa
Finestra che non si illumina.

Cave d’Autunno

Su cui discende la primavera lunare
E nimba di candore ogni frastaglio,
schianti di pigne, abbaglio
di reti stese e schegge,

ritornerà ritornerà sul gelo
la bontà d’una mano,
varcherà il cielo lontano
la ciurma luminosa che ci saccheggia.

Il Lago di Annecy

Non so perché il mio ricordo ti lega
Al lago di Annecy
Che visitai qualche anno prima della tua morte.
Ma allora no ti ricordai, ero giovane
E mi credevo padrone della mia sorte.
Perché può scattar fuori una memoria
Così insabbiata non lo so; tu stessa
M’hai certo seppellito e non l’hai saputo.
Ora risorgi viva e non ci sei. Potevo
Chiedere allora del tuo pensionato,
vedere uscirne le fanciulle in fila,
trovare un tuo pensiero di quando eri
viva e non l’ho pensato. Ora ch’è inutile
mi basta la fotografia del lago.

Spesso il male di vivere

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
Che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Forse un mattino andando

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.

Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
Alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Claudio Volpi

Nato ad Assisi, dove vive e lavora. Laureato in Lettere Moderne, si occupa di Arte e Antiquariato, ha una Galleria D’Arte nel centro storico della città. Dagli anni ottanta ha pubblicato diverse raccolte di poesie, l’ultima quest’anno con il volume “Voci Versate”, Casa Editrice Pagine Roma.

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