01 Settembre 2024

È bello qui fermarsi per dirti addio

Claudio Volpi
È bello qui fermarsi per dirti addio

Da uno stimolo di Luca Mastrantonio ripeschiamo un autore oggi molto dimenticato, e quasi sconosciuto come poeta, Gesualdo Bufalino (1920 -1996). È uno scrittore molto particolare, appartato, arrivato tardi a pubblicare il suo primo romanzo, nel 1981, all’età di sessantuno anni, ‘Diceria dell’untore’, manoscritto che teneva nel cassetto, scoperto da Leonardo Sciascia e da Elvira Sellerio, che ebbe un clamoroso successo e vinse subito il premio Strega, seguito poi da altri libri altrettanto fortunati. Da una  nota dello stesso autore tratta dalla raccolta di poesie ‘L’amaro miele’ queste parole illuminanti: ‘ Questi versi, scritti su carta da macero con un pennino Perry moltissimi anni fa; sopravvissuti quasi solo per caso alle periodiche fiamme di San Silvestro a cui l’autore fu solito un tempo condannare il superfluo e l’odioso dei suoi cassetti; divenuti, invecchiando, patetici come rulli di pianola o vecchie fotografie; non vantano probabilmente altro merito per vedere la luce, se non quello privato, di fare per un momento sorridere, ove ne abbia ancora le labbra capaci, un fantasma di gioventù. Il quale potrà ritrovarvi e riconoscervi, insieme ai relitti di sue antiche pene d’amore perdute in riva al Mediterraneo, le memorie di una lunga attesa e persuasione di morte all’ombra grave della guerra; e le veloci letizie, le lunghe solitudini, dopo il ritorno nel Sud’. La sua è una scrittura forte, alta, che ha spesso i profumi della sua terra, la Sicilia, con struggente malinconia del tempo passato e perduto.

 

Dedica, molti anni dopo

Queste parole

di un uomo

dal cuore debole,

sorta di macchine

o giochi

per soffrire di meno,

ad altri uomini

dal cuore debole:

coscritti balbuzienti,

spretati dagli occhi miopi,

guitti fischiati,

collegiali alla gogna,

re in esilio

invecchiati

a un tavolo di caffè,

che un giorno

finalmente

un sicario pietoso

aiuta dietro un muro,

con un coltello…

Queste parole

di un moribondo

di provincia

a chiunque abbia scelto

di somigliargli,

col viso contro i vetri,

fisso a guardare

nell’orto

un albero di ciliegio

teatralmente morire…

Queste parole

scritte senza crederci,

e tuttavia piangendo,

a me stesso bambino

che uccisi

o che s’uccise,

ma che talora,

una due volte l’anno,

non so come

rinasce

fiocamente rinasce

e torna a recitarsele

da solo…

per poco ancora,

per qualche giorno ancora:

finchè giunga l’inverno

nel suo mantello d’ussaro

e il fuoco le consumi

e le consegni alla notte.

 

 

1

Con un gelo davanti

e la morte

dentro la mente

seduto a un bar

di Piazza Marina

guardo due mosche

amarsi sulla mia mano,

come colpi di batticuore

odo martelli

battere sulle rotaie,

mi chiedo perché vivo,

che grido o caduta

m’aspetta dietro l’angolo,

rammento un altro

sole rovente come questo

sulla mia testa rasa

di soldato,

un’altra attesa,

un’altra fuga,

un’altra tana.

Ora pago,

mi alzo,

questo giorno è sbagliato,

questo e gli altri prima,

sono un uomo infelice.

 

2

Degli alberi e dei fiori

mi son scordato i nomi,

come un bambino vizioso

divento rosso per nulla.

 

Allora m’incammino

nel sonnambulo sole,

bevo una birra all’ombra

delle pergole brune.

 

Chi mi scava una tana

per salvarmi da me,

chi mi spiega la vita

e le sue risa strane?

 

3

Quando c’è festa

nei miei paesi

vengono da lontano

i venditori,

mangiaspade,

mangiafuoco,

con mani immense

e scamiciate

alzano sui bambini

la tromba del diluvio,

dormono a notte

nei fondachi scuri,

se ne vanno un mattino

sotto la pioggia.

 

Io non ho più fiere

da visitare,

e più m’attempo

più voglio morire.

 

Versi scritti sul muro

Più lontano mi sei,

più Ti risento

farmiti dentro il cuore

sangue, grido, tumore,

e crescermi sul petto.

 

Più sei lontano

e più Ti porto addosso,

fra l’abito e la carne,

contrabbando cattivo,

volpe rubata

che mi mangia il petto.

 

A chi lo sa

S’io sapessi cantare

come il sole di giugno

nel ventre della spiga,

l’obliquo invincibile sole;

s’io sapessi gridare

gridare gridare gridare

come il mare

quando s’impenna

nel ludibrio d’aquilone;

s’io sapessi usurpare

il linguaggio della pioggia

che insegna all’erba

crudeli dolcezze…

oh allora

ogni mattino,

e non con questa

roca voce d’uomo,

vorrei dirti

che t’amo

e sui muri

del mio cieco cammino

scrivere la letizia

del tuo nome,

le tre sillabe sante

e misteriose,

il mio sigillo

di nuova speranza,

il mio pane,

il mio vino,

il mio viatico buono.

 

Esercizio con sentimento

Per l’alto cielo

odoroso d’arance

e di camicie nude

al davanzale,

come caro lo scroscio

che m’assale

di sole tardo

la povera guancia.

Oh riaprirsi

all’affettuosa lancia,

tornare uccello

di giovini ali…

vita, puoi dunque ancora

non far male,

se mi dai questa

incredibile mancia.

Ma tu, cuore,

detrito di tempeste inaccadute,

che pensi,

che dici,

nel girotondo

d’arancia celeste?

Sapessi riparlarne

con gli amici,

ritrovare una sera

le tue feste,

ingenui moti,

vanità felici.

 

Svolta

Venga l’autunno

a dirci che

siamo vivi,

seduti sull’argine rosso

a guardare l’acqua

che se ne va.

E tornino le pezze

di turchino ai cancelli,

i casti numi di gesso,

le rose sdrucite,

le vesti liete

dei fidanzati,

tutto rinnovi il tempo

il suo mite apparecchio.

Poiché, mentre l’aria

rapisce nel suo sonno

le foglie del sangue,

e così piano mi tenta

quest’esule sole

la fronte

è bello qui fermarsi

per dirti addio,

mia giovinezza,

mia giovinezza.

 

Claudio Volpi

Nato ad Assisi, dove vive e lavora. Laureato in Lettere Moderne, si occupa di Arte e Antiquariato, ha una Galleria D’Arte nel centro storico della città. Dagli anni ottanta ha pubblicato diverse raccolte di poesie, l’ultima quest’anno con il volume “Voci Versate”, Casa Editrice Pagine Roma.

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