Da uno stimolo di Luca Mastrantonio ripeschiamo un autore oggi molto dimenticato, e quasi sconosciuto come poeta, Gesualdo Bufalino (1920 -1996). È uno scrittore molto particolare, appartato, arrivato tardi a pubblicare il suo primo romanzo, nel 1981, all’età di sessantuno anni, ‘Diceria dell’untore’, manoscritto che teneva nel cassetto, scoperto da Leonardo Sciascia e da Elvira Sellerio, che ebbe un clamoroso successo e vinse subito il premio Strega, seguito poi da altri libri altrettanto fortunati. Da una nota dello stesso autore tratta dalla raccolta di poesie ‘L’amaro miele’ queste parole illuminanti: ‘ Questi versi, scritti su carta da macero con un pennino Perry moltissimi anni fa; sopravvissuti quasi solo per caso alle periodiche fiamme di San Silvestro a cui l’autore fu solito un tempo condannare il superfluo e l’odioso dei suoi cassetti; divenuti, invecchiando, patetici come rulli di pianola o vecchie fotografie; non vantano probabilmente altro merito per vedere la luce, se non quello privato, di fare per un momento sorridere, ove ne abbia ancora le labbra capaci, un fantasma di gioventù. Il quale potrà ritrovarvi e riconoscervi, insieme ai relitti di sue antiche pene d’amore perdute in riva al Mediterraneo, le memorie di una lunga attesa e persuasione di morte all’ombra grave della guerra; e le veloci letizie, le lunghe solitudini, dopo il ritorno nel Sud’. La sua è una scrittura forte, alta, che ha spesso i profumi della sua terra, la Sicilia, con struggente malinconia del tempo passato e perduto.
Dedica, molti anni dopo
Queste parole
di un uomo
dal cuore debole,
sorta di macchine
o giochi
per soffrire di meno,
ad altri uomini
dal cuore debole:
coscritti balbuzienti,
spretati dagli occhi miopi,
guitti fischiati,
collegiali alla gogna,
re in esilio
invecchiati
a un tavolo di caffè,
che un giorno
finalmente
un sicario pietoso
aiuta dietro un muro,
con un coltello…
Queste parole
di un moribondo
di provincia
a chiunque abbia scelto
di somigliargli,
col viso contro i vetri,
fisso a guardare
nell’orto
un albero di ciliegio
teatralmente morire…
Queste parole
scritte senza crederci,
e tuttavia piangendo,
a me stesso bambino
che uccisi
o che s’uccise,
ma che talora,
una due volte l’anno,
non so come
rinasce
fiocamente rinasce
e torna a recitarsele
da solo…
per poco ancora,
per qualche giorno ancora:
finchè giunga l’inverno
nel suo mantello d’ussaro
e il fuoco le consumi
e le consegni alla notte.
1
Con un gelo davanti
e la morte
dentro la mente
seduto a un bar
di Piazza Marina
guardo due mosche
amarsi sulla mia mano,
come colpi di batticuore
odo martelli
battere sulle rotaie,
mi chiedo perché vivo,
che grido o caduta
m’aspetta dietro l’angolo,
rammento un altro
sole rovente come questo
sulla mia testa rasa
di soldato,
un’altra attesa,
un’altra fuga,
un’altra tana.
Ora pago,
mi alzo,
questo giorno è sbagliato,
questo e gli altri prima,
sono un uomo infelice.
2
Degli alberi e dei fiori
mi son scordato i nomi,
come un bambino vizioso
divento rosso per nulla.
Allora m’incammino
nel sonnambulo sole,
bevo una birra all’ombra
delle pergole brune.
Chi mi scava una tana
per salvarmi da me,
chi mi spiega la vita
e le sue risa strane?
3
Quando c’è festa
nei miei paesi
vengono da lontano
i venditori,
mangiaspade,
mangiafuoco,
con mani immense
e scamiciate
alzano sui bambini
la tromba del diluvio,
dormono a notte
nei fondachi scuri,
se ne vanno un mattino
sotto la pioggia.
Io non ho più fiere
da visitare,
e più m’attempo
più voglio morire.
Versi scritti sul muro
Più lontano mi sei,
più Ti risento
farmiti dentro il cuore
sangue, grido, tumore,
e crescermi sul petto.
Più sei lontano
e più Ti porto addosso,
fra l’abito e la carne,
contrabbando cattivo,
volpe rubata
che mi mangia il petto.
A chi lo sa
S’io sapessi cantare
come il sole di giugno
nel ventre della spiga,
l’obliquo invincibile sole;
s’io sapessi gridare
gridare gridare gridare
come il mare
quando s’impenna
nel ludibrio d’aquilone;
s’io sapessi usurpare
il linguaggio della pioggia
che insegna all’erba
crudeli dolcezze…
oh allora
ogni mattino,
e non con questa
roca voce d’uomo,
vorrei dirti
che t’amo
e sui muri
del mio cieco cammino
scrivere la letizia
del tuo nome,
le tre sillabe sante
e misteriose,
il mio sigillo
di nuova speranza,
il mio pane,
il mio vino,
il mio viatico buono.
Esercizio con sentimento
Per l’alto cielo
odoroso d’arance
e di camicie nude
al davanzale,
come caro lo scroscio
che m’assale
di sole tardo
la povera guancia.
Oh riaprirsi
all’affettuosa lancia,
tornare uccello
di giovini ali…
vita, puoi dunque ancora
non far male,
se mi dai questa
incredibile mancia.
Ma tu, cuore,
detrito di tempeste inaccadute,
che pensi,
che dici,
nel girotondo
d’arancia celeste?
Sapessi riparlarne
con gli amici,
ritrovare una sera
le tue feste,
ingenui moti,
vanità felici.
Svolta
Venga l’autunno
a dirci che
siamo vivi,
seduti sull’argine rosso
a guardare l’acqua
che se ne va.
E tornino le pezze
di turchino ai cancelli,
i casti numi di gesso,
le rose sdrucite,
le vesti liete
dei fidanzati,
tutto rinnovi il tempo
il suo mite apparecchio.
Poiché, mentre l’aria
rapisce nel suo sonno
le foglie del sangue,
e così piano mi tenta
quest’esule sole
la fronte
è bello qui fermarsi
per dirti addio,
mia giovinezza,
mia giovinezza.