“Gli innamorati si danno sempre dei soprannomi, perché vedono ciò che il mondo non vede. Loro scelsero i fanciulleschi Mik e Fifi, perché amare è custodire il bambino che c’è nell’altro o curare il bambino che l’altro non è potuto essere. Lui è Miklos Radnoti, ebreo, promessa della poesia ungherese, occhi malinconici per nostalgia della madre morta dandolo alla luce; lei Fanni Gyarmati, insegnante, occhi azzurri quanto il suo amore per la letteratura…Si erano riconosciuti a una lezione di matematica, lui 17anni, lei 14, nel 1926, e sposati nove anni dopo. Altri nove ne sono passati, con le luci e le ombre di ogni capolavoro, quando nel 1944 i nazisti occupano l’Ungheria e mandano Mik in un campo di lavoro da dove riesce a scrivere a Fifi parole essenziali, come i suoi versi: ‘ Sei tu a dare un senso alla mia vita. Resterò in vita per te’. E lei che legge e rilegge quella promessa capisce: ha scritto ‘resterò in vita’ e non ‘tornerò’. E così lo va a cercare nel campo in cui era stato deportato. Vuoto. Chi ama non si da per vinto, ma per vivo. E continua a cercare. Dove? Scopre che i prigionieri erano stati portati dai tedeschi in un’altra località vicina, Bor, in Serbia, in una notte di novembre, di ghiaccio e di sangue. Anche lì, dopo un anno e mezzo domina un apparente silenzio, nel quale lei, mentre passeggia tra le baracche vuote, ricorda (che cosa è la memoria se non vita che non può morire?) un verso di Mik: ‘ ero fiore, sono diventato radice’, che solo ora può capire, fissando un cespuglio di fiori bianchi sopra il terreno smosso. ‘Ubi amor ibi oculus’, dicevano i mistici medievali: chi ama, vede, perché l’amore non acceca ma ci vede benissimo… E così chiede ai soldati di presidio di scavare, lì sotto. Loro non resistono al dolore che ha reso quella donna folle e, per pietà l’assecondano, in realtà è lei l’unica lucida, l’unica ad amare e quindi a vederci bene. Infatti le radici di quei fiori sono i corpi di una fossa comune dove, un anno e mezzo prima, erano stati gettati i prigionieri. Ora restano solo vestiti laceri su ossa irriconoscibili, ma Fanni scorge un cappotto familiare su cui è incollato il numero 12, fruga nelle tasche e trova un taccuino dalla grafia inconfondibile, che parla proprio a lei in forma di poesia: ‘ Vedi , cara, il campo dorme, i sogni frusciano/…Io solo/sono sveglio, assaporo un mozzicone invece di un tuo bacio/ e il sonno tarda a darmi conforto, perché/ ormai non posso più morire né vivere senza di te’….Mik si era trascinato per trenta chilometri nella notte gelata, mentre lo picchiavano ripetendogli ‘ ecco lo scribacchino!’, e poi un giorno gli avevano sparato. Ma proprio la sua scrittura aveva tracciato la via del ritorno, infatti il taccuino che Fanni aveva in mano, il ‘Taccuino di Bor’, è l’unica raccolta di poesie sopravvissuta a un campo di concentramento. Mik, morto a 35 anni, aveva mantenuto la promessa, ‘resterò in vita per te’, ma il ‘per’ significava anche ‘grazie a’; e Dio aveva ascoltato la preghiera che Fanni ripeteva da quando avevano catturato Mik: ‘prendi me al suo posto’. Dio esaudisce a modo suo, perché le preghiere non servono a cambiare la realtà ma a cambiare chi le fa, e così Fanni visse fino al 2014, 102 anni, facendo memoria di Mik: gli anni sottratti a lui furono dati a lei che non smise di ripetere il suo nome al mondo e l’orrore del nazismo… Lei frugò anche nell’altra tasca del cappotto di lui, a sinistra, e vi trovò due fotografie. Una era di lei bambina, l’altra di lei donna. Mik le teneva vicine al cuore per ricordarsi che amare è custodire il destino dell’altro, il bambino nell’altro. Era davvero rimasto vivo per lei, e lei rimase viva per lui, perché fare memoria non è suscitare sensi di colpa ma dare vita. Fanni si sarà chiesta tante volte, dove fosse finito il Dio in cui credeva durante quegli anni. Ma non si servì mai di quella domanda per giustificare l’inesistenza, perché conosceva la risposta: ‘Ero dove era l’amore, ero dove era il dolore. Ero dove era tuo marito, ero dove eri tu. Sono dove siete voi. E lì sarò sempre’.” (Alessandro D’Avenia).
Lettera alla moglie
Nelle profondità
vegliano mondi muti,
il silenzio è grido
nel mio orecchio
e se grido non c’è
chi mi risponda:
la remota Serbia
inebetita dalla guerra
e tu così lontana.
Dei miei sogni
è trama la tua voce
e quando è giorno
l’ho nel cuore
e taccio mentre intorno
fredda e superba
mormora la felce.
Non so più
quando ti rivedrò,
tu come un salmo
rassicurante e solida,
come la luce bella
e come l’ombra,
tu che ritroverai
pur cieco e muto
tu ti confondi
adesso nel paesaggio
e dal profondo
riaffiori nei miei occhi,
tu eri la realtà,
ora sei sogno,
nel pozzo dei primi anni
mi riaffondi
e ti chiedo geloso:
tu mi ami?
e spero come allora
che mia sposa
tu sia prima
che fugga giovinezza;
ritorno in me:
tu sei mia sposa e amica
e lontana al di là
di tre frontiere.
Già è in arrivo l’autunno
e io mi chiedo:
qui mi scorderà
anche questo autunno?
Si fa più acuto
il ricordo dei tuoi baci.
Credevo nei miracoli,
li ho dimenticati,
squadri di bombardieri
rigano il cielo
dove trovavo
l’azzurro dei tuoi occhi,
ma si è incupito
e là in alto le bombe
han voglia di cadere.
Malgrado loro, vivo.
Prigioniero,
ho preso la misura
a ogni speranza,
la via di ognuna
mi conduce a te,
per te ho percorso
le distese dell’anima
e tutti questi paesi.
Braci purpuree attraverserò
e vampe fiammeggianti,
foss’anche per magia,
se serve avrò
la tenacia della scorza
che aderisce all’albero
e la calma di un uomo
indurito dai pericoli,
una calma che val
potere ed armi
e su di me cadrà
come una fresca ondata
la fredda lucidità
del 2×2.
Lager Heideman sulle montagne di Zagubica
Agosto- settembre 1944
Marcia forzata
E’ pazzo, chi è crollato
si rialza e di nuovo
si incammina,
e con dolore errante
muove ginocchia e caviglie,
eppure si avvia sulla strada
come se avesse le ali,
il fosso lo chiama invano,
non ha il coraggio di restare,
e se chiedi perché no?
forse ancora ti risponde,
che è atteso da una donna,
da una morte più saggia,
una morte bella.
Eppure è pazzo, il mansueto,
perché laggiù sopra le case
da tempo non gira più
che vento bruciacchiato,
il muro è steso sulla schiena
e il pruno è spezzato
e la paura è il manto
delle notti in patria.
Oh, se potessi credere:
non solo portare nel cuore
tutto ciò che ancora vale,
e c’è una casa dove tornare?
se ci fosse! E come una volta
sulla fresca veranda
ronzerebbe l’ape della pace,
mentre si fredda
la marmellata di prugne,
e il silenzio di fine estate
prenderebbe il sole
nei giardini sonnolenti,
e tra le fronde
dondolerebbero frutti nudi,
e Fanni mi attenderebbe bionda
davanti alla fitta siepe
e lentamente il lento mattino
disegnerebbe l’ombra,
forse è possibile ancora?
la luna oggi
è così tonda!
Non passarmi oltre, amico,
sgridami e mi rialzo!
Bor , 15 settembre 1944
Radice
Nella radice guizza la forza,
beve la pioggia,
vive di terra
e il suo sogno
è bianco, di neve.
Di sotto terra
urge alla superficie,
si arrampica
ed è furba,
ha le braccia
come funi.
Sulle sue braccia
dorme il verme,
ai piedi della radice
siede il verme,
il mondo si vermifica.
Ma la radice continua
a vivere sottoterra,
non si cura del mondo,
solo dei suoi rami frondosi.
Lei li ammira, li nutre,
sapori buoni gli invia,
sapori dolci, celestiali.
Sono anch’io una radice,
adesso,
vivo tra vermi, io,
e qui preparo
questa poesia.
Ero fiore,
sono diventato radice,
buia e pesante
la terra su di me,
la mia sorte è compiuta,
una sega piange
sulla mia testa.
Lager heidenau, Zagubica, 8 agosto 1944
Settima egloga
Vedi, cala la sera
sui baraccamenti,
fluttuano nel feroce recinto,
ricamato di filo spinato,
i pali di quercia che il buio dissolve.
Lo sguardo abbandona lentamente
la cornice del campo
e la mente, solo la mente
è consapevole
della tensione del filo.
Vedi amor mio,
è così che la fantasia
qui può liberarsi,
magnifico liberatore,
il sogno scioglie
i nostri corpi in pezzi
ed è a quest’ora che il campo
prende la via di casa.
In cenci, rapati, russando,
s’involano i prigionieri
dalle alture cieche della Serbia
verso il nascosto
paesaggio di casa.
Nascosto paesaggio di casa!
Ma esiste ancora una casa?
Non l’avrà colpita una bomba?
E’ lì, come prima che partissimo?
E chi giace stremato
alla mia destra,
quello che geme a sinistra,
farà ritorno?
C’è ancora un posto, dimmi,
laggiù, dove qualcuno intenda
questi esametri?
Senza interpunzione né accenti,
a tastoni, riga sotto riga,
scrivo questi versi nel buio,
così come vivo, alla cieca,
come bruco di processionaria
che misuri strisciando la carta;
torce, libri, quaderni,
tutto si sono presi
i guardiani del lager,
nessuno che porti la posta,
solo nebbia sulle nostre baracche.
Tra notizie allarmanti e insetti,
qui vivono sulle montagne
il francese, il polacco,
l’italiano vivace,
il serbo ribelle, l’ebreo assorto,
febbricitanti, il corpo in pezzi,
vivono tuttavia la stessa vita,
nell’attesa di una buona nuova,
di una dolce parola da una donna,
di un destino libero ed umano,
di una fine,
di un capovolgimento nel buio,
di un miracolo.
Giaccio sul tavolato,
bestia prigioniera fra gli insetti,
le pulci rinnovano l’assedio,
l’orda delle mosche si riposa.
Vedi, è sera, la prigionia
è più corta di un giorno,
di un giorno anche la vita.
Il campo è addormentato,
la luna illumina il paesaggio,
di nuovo alla sua luce
si tende il filo spinato
e scivola sui muri
l’ombra in cammino
delle guardie armate
in mezzo alle voci della notte.
Vedi amor mio,
il campo è addormentato,
frusciano i sogni,
uno che ronfa si scuote,
si rigira nel suo spazio stretto,
si è già riaddormentato
e il suo volto risplende.
Siedo sveglio io solo,
assaporo nella bocca una cicca
al posto di un tuo bacio
e il sonno tarda a confortarmi
perché oramai non so,
senza di te,
né morire né vivere.
Lager Heideman sulle montagne di Zagubica, luglio1944