02 Febbraio 2025

Dov’era Dio? La forza dell’amore e della poesia.

Claudio Volpi
Dov’era Dio? La forza dell’amore e della poesia.
La Natura - Giovanni Segantini, dal Trittico della Natura, 1896-1899, Saint Moritz, Museo Segantini.

“Gli innamorati si danno sempre dei soprannomi, perché vedono ciò che il mondo non vede. Loro scelsero i fanciulleschi Mik e Fifi, perché amare è custodire il bambino che c’è nell’altro o curare il bambino che l’altro non è potuto essere. Lui è Miklos Radnoti, ebreo, promessa  della poesia ungherese, occhi malinconici per nostalgia della madre morta dandolo alla luce; lei Fanni Gyarmati, insegnante, occhi azzurri quanto il suo amore per la letteratura…Si erano riconosciuti a una lezione di matematica, lui 17anni, lei 14, nel 1926, e sposati nove anni dopo. Altri nove ne sono passati, con le luci e le ombre di ogni capolavoro, quando nel 1944 i nazisti occupano l’Ungheria e mandano Mik in un campo di lavoro da dove riesce a scrivere a Fifi parole essenziali, come i suoi versi: ‘ Sei tu a dare un senso alla mia vita. Resterò in vita per te’. E lei che legge e rilegge quella promessa capisce: ha scritto ‘resterò in vita’ e non ‘tornerò’. E così lo va a cercare nel campo in cui era stato deportato. Vuoto. Chi ama non si da per vinto, ma per vivo. E continua a cercare. Dove? Scopre che i prigionieri erano stati portati dai tedeschi in un’altra località vicina, Bor, in Serbia, in una notte di novembre, di ghiaccio e di sangue. Anche lì, dopo un anno e mezzo domina un apparente silenzio, nel quale lei, mentre passeggia tra le baracche vuote, ricorda (che cosa è la memoria se non vita che non può morire?) un verso di Mik: ‘ ero fiore, sono diventato radice’, che solo ora può capire, fissando un cespuglio di fiori bianchi sopra il terreno smosso. ‘Ubi amor ibi oculus’, dicevano i mistici medievali: chi ama, vede, perché l’amore non acceca ma ci vede benissimo… E così chiede ai soldati di presidio di scavare, lì sotto. Loro non resistono al dolore che ha reso quella donna folle e, per pietà l’assecondano, in realtà è lei l’unica lucida, l’unica ad amare e quindi a vederci bene. Infatti le radici di quei fiori sono i corpi di una fossa comune dove, un anno e mezzo prima, erano stati gettati i prigionieri. Ora restano solo vestiti laceri su ossa irriconoscibili, ma Fanni scorge un cappotto familiare su cui è incollato il numero 12, fruga nelle tasche e trova un taccuino dalla grafia inconfondibile, che parla proprio a lei in forma di poesia: ‘ Vedi , cara, il campo dorme, i sogni frusciano/…Io solo/sono sveglio, assaporo un mozzicone invece di un tuo bacio/ e il sonno tarda a darmi conforto, perché/ ormai non posso più morire né vivere senza di te’….Mik si era trascinato per trenta chilometri nella notte gelata, mentre lo picchiavano ripetendogli ‘ ecco lo scribacchino!’, e poi un giorno gli avevano sparato. Ma proprio la sua scrittura aveva tracciato la via del ritorno, infatti il taccuino che Fanni aveva in mano, il ‘Taccuino di Bor’, è l’unica raccolta di poesie sopravvissuta a un campo di concentramento. Mik, morto a 35 anni, aveva mantenuto la promessa, ‘resterò in vita per te’, ma il ‘per’ significava anche ‘grazie a’; e Dio aveva ascoltato la preghiera che Fanni ripeteva da quando avevano catturato Mik: ‘prendi me al suo posto’. Dio esaudisce a modo suo, perché le preghiere non servono a cambiare la realtà ma a cambiare chi le fa, e così Fanni visse fino al 2014, 102 anni, facendo memoria di Mik: gli anni sottratti a lui furono dati a lei che non smise di ripetere il suo nome al mondo e l’orrore del nazismo… Lei frugò anche nell’altra tasca del cappotto di lui, a sinistra, e vi trovò due fotografie. Una era di lei bambina, l’altra di lei donna. Mik le teneva vicine al cuore per ricordarsi che amare è custodire il destino dell’altro, il bambino nell’altro. Era davvero rimasto vivo per lei, e lei rimase viva per lui, perché fare memoria non è suscitare sensi di colpa ma dare vita. Fanni si sarà chiesta tante volte, dove fosse finito il Dio in cui credeva durante quegli anni. Ma non si servì mai di quella domanda per giustificare l’inesistenza, perché conosceva la risposta: ‘Ero dove era l’amore, ero dove era il dolore. Ero dove era tuo marito, ero dove eri tu. Sono dove siete voi. E lì sarò sempre’.” (Alessandro D’Avenia).

 

Lettera alla moglie

Nelle profondità

vegliano mondi muti,

il silenzio è grido

nel mio orecchio

e se grido non c’è

chi mi risponda:

la  remota Serbia

inebetita dalla guerra

e tu così lontana.

Dei miei sogni

è trama la tua voce

e quando è giorno

l’ho nel cuore

e taccio mentre intorno

fredda e superba

mormora la felce.

 

Non so più

quando ti rivedrò,

tu come un salmo

rassicurante e solida,

come la luce bella

e come l’ombra,

tu che ritroverai

pur cieco e muto

tu ti confondi

adesso nel paesaggio

e dal profondo

riaffiori nei miei occhi,

tu eri la realtà,

ora sei sogno,

nel pozzo dei primi anni

mi riaffondi

 

e ti chiedo geloso:

tu mi ami?

e spero come allora

che mia sposa

tu sia prima

che fugga giovinezza;

ritorno in me:

tu sei mia sposa e amica

e lontana al di là

di tre frontiere.

Già  è in arrivo l’autunno

e io mi chiedo:

qui mi scorderà

anche questo autunno?

Si fa più acuto

il ricordo dei tuoi baci.

 

Credevo nei miracoli,

li ho dimenticati,

squadri di bombardieri

rigano il cielo

dove trovavo

l’azzurro dei tuoi occhi,

ma si è incupito

e là in alto le bombe

han voglia di cadere.

Malgrado loro, vivo.

Prigioniero,

ho preso la misura

a ogni speranza,

la via di ognuna

mi conduce a te,

per te ho percorso

le distese dell’anima

 

e tutti questi paesi.

Braci purpuree attraverserò

e vampe fiammeggianti,

foss’anche per magia,

se serve avrò

la tenacia della scorza

che aderisce all’albero

e la calma di un uomo

indurito dai pericoli,

una calma che val

potere ed armi

e su di me cadrà

come una fresca ondata

la fredda lucidità

del 2×2.

                Lager Heideman sulle montagne di Zagubica

                  Agosto- settembre 1944

 

Marcia forzata

E’ pazzo, chi è crollato

si rialza e di nuovo

si incammina,

e con dolore errante

muove ginocchia e caviglie,

eppure si avvia sulla strada

come se avesse le ali,

il fosso lo chiama invano,

non ha il coraggio di restare,

e se chiedi perché no?

forse ancora ti risponde,

che è atteso da una donna,

da una morte più saggia,

una morte bella.

Eppure è pazzo, il mansueto,

perché laggiù sopra le case

da tempo non gira più

che vento bruciacchiato,

il muro è steso sulla schiena

e il pruno è spezzato

e la paura è il manto

delle notti in patria.

Oh, se potessi credere:

non solo portare nel cuore

tutto ciò che ancora vale,

e c’è una casa dove tornare?

se ci fosse! E come una volta

sulla fresca veranda

ronzerebbe l’ape della pace,

mentre si fredda

la marmellata di prugne,

e il silenzio di fine estate

prenderebbe il sole

nei giardini sonnolenti,

e tra le fronde

dondolerebbero frutti nudi,

e Fanni mi attenderebbe bionda

davanti alla fitta siepe

e lentamente il lento mattino

disegnerebbe l’ombra,

forse è possibile ancora?

la luna oggi

è così tonda!

Non passarmi oltre, amico,

sgridami e mi rialzo!

                                     Bor , 15 settembre 1944

 

Radice

Nella radice guizza la forza,

beve la pioggia,

vive di terra

e il suo sogno

è bianco, di neve.

 

Di sotto terra

urge alla superficie,

si arrampica

ed è furba,

ha le braccia

come funi.

 

Sulle sue braccia

dorme il verme,

ai piedi della radice

siede il verme,

il mondo si vermifica.

 

Ma la radice continua

a vivere sottoterra,

non si cura del mondo,

solo dei suoi rami frondosi.

 

Lei li ammira, li nutre,

sapori buoni gli invia,

sapori dolci, celestiali.

 

Sono anch’io una radice,

adesso,

vivo tra vermi, io,

e qui preparo

questa poesia.

 

Ero fiore,

sono diventato radice,

buia e pesante

la terra su di me,

la mia sorte è compiuta,

una sega piange

sulla mia testa.

                   Lager heidenau, Zagubica, 8 agosto 1944

 

Settima egloga

Vedi, cala la sera

sui baraccamenti,

fluttuano nel feroce recinto,

ricamato di filo spinato,

i pali di quercia che il buio dissolve.

Lo sguardo abbandona lentamente

la cornice del campo

e la mente, solo la mente

è consapevole

della tensione del filo.

Vedi amor mio,

è così che la fantasia

qui può liberarsi,

magnifico liberatore,

il sogno scioglie

i nostri corpi in pezzi

ed è a quest’ora che il campo

prende la via di casa.

In cenci, rapati, russando,

s’involano i prigionieri

dalle alture cieche della Serbia

verso il nascosto

paesaggio di casa.

Nascosto paesaggio di casa!

Ma esiste ancora una casa?

Non l’avrà colpita una bomba?

E’ lì, come prima che partissimo?

E chi giace stremato

alla mia destra,

quello che geme a sinistra,

farà ritorno?

C’è ancora un posto, dimmi,

laggiù, dove qualcuno intenda

questi esametri?

 

Senza interpunzione né accenti,

a tastoni, riga sotto riga,

scrivo questi versi nel buio,

così come vivo, alla cieca,

come bruco di processionaria

che misuri strisciando la carta;

torce, libri, quaderni,

tutto si sono presi

i guardiani del lager,

nessuno che porti la posta,

solo nebbia sulle nostre baracche.

 

Tra notizie allarmanti e insetti,

qui vivono sulle montagne

il francese, il polacco,

l’italiano vivace,

il serbo ribelle, l’ebreo assorto,

febbricitanti, il corpo in pezzi,

vivono tuttavia la stessa vita,

nell’attesa di una buona nuova,

di una dolce parola da una donna,

di un destino libero ed umano,

di una fine,

di un capovolgimento nel buio,

di un miracolo.

 

Giaccio sul tavolato,

bestia prigioniera fra gli insetti,

le pulci rinnovano l’assedio,

l’orda delle mosche si riposa.

Vedi, è sera, la prigionia

è più corta di un giorno,

di un giorno anche la vita.

Il campo è addormentato,

la luna illumina il paesaggio,

di nuovo alla sua luce

si tende il filo spinato

e scivola sui muri

l’ombra in cammino

delle guardie armate

in mezzo alle voci della notte.

 

Vedi amor mio,

il campo è addormentato,

frusciano i sogni,

uno che ronfa si scuote,

si rigira nel suo spazio stretto,

si è già riaddormentato

e il suo volto risplende.

Siedo sveglio io solo,

assaporo nella bocca una cicca

al posto di un tuo bacio

e il sonno tarda a confortarmi

perché oramai non so,

senza di te,

né morire né vivere.

                         Lager Heideman sulle montagne di Zagubica, luglio1944

 

 

 

 

 

 

Claudio Volpi

Nato ad Assisi, dove vive e lavora. Laureato in Lettere Moderne, si occupa di Arte e Antiquariato, ha una Galleria D’Arte nel centro storico della città. Dagli anni ottanta ha pubblicato diverse raccolte di poesie, l’ultima quest’anno con il volume “Voci Versate”, Casa Editrice Pagine Roma.

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