Alcune poesie di Stefano Simoncelli ispirate e dedicate a chi non c’è più, alle assenze nelle nostre vite, una madre, un amore, qualcuno che è stato importante….
A mia madre
Non mi orizzonto mai
nei mattini troppo luminosi
e a occhi semichiusi mi trascino,
oggi che è arrivata primavera,
da una camera all’altra
fino al ballatoio,
al terrazzo,
annusando l’aria
come una bestiola smarrita
in cerca dei tuoi vestiti,
le calze,
le scarpe rigorosamente
senza tacco
e penso come è vano
il mio fuggire
per ritornare
fradicio di niente
e rattrappito fino alle ossa
se non riesco ad andare
un solo centimetro più in là
dei rocchetti colorati di cotone
e le scatoline
stracolme di bottoni
che hai lasciato
nella vecchia singer.
La sciarpa viola
(la portavi in ospedale
con civetteria e imbarazzo)
imboscata insieme
agli altri capi invernali
in fondo all’armadio,
scampata allo sciacallaggio
delle zelanti donne
delle pulizie
che dopo il funerale
hanno strofinato
e strofinato
gli angoli della casa
cancellando ogni tua traccia
non è, mi dico,
di pelle e ossa.
Allora perché
rimango qui,
custode di reliquie,
l’ultima notte dell’anno,
l’ultimo anno del millennio,
a baciarla e accarezzarla
come se là dentro,
nella lana…
Ti lasciavi pettinare
come fossimo nel salone
di un rinomato parrucchiere.
‘Stasera viene a trovarmi
la Maria’ sussurravi
sprofondando
poco alla volta
in un viaggio esclusivo
di pillole e fiale
fino a raggiungere
porti abitati
da chiari di luna,
vuoti di memoria,
parenti mai ritornati
da Stalingrado
o lo scintillio magico
degli spilli per le messe
in prova notturne
alle attrici
del Carro di Tespi.
Rivedevi lampi di pailletes,
sfarzose nuvole d’organza,
la sensualità dei velluti
e in quei sogni artificiali
forse sei stata
anche felice.
Sul terrazzo all’aperto
di un altro
aprile impietoso
mi è sembrato
-oh, un attimo!-
che tu sia ritornata
per aiutarmi
a stendere
i lenzuoli del bucato
oggi che tira vento
dal mare,
volano le tende
e la casa mi gira intorno
come una giostra,
si capovolge:
i pavimenti
diventano soffitti,
le pareti,
con quadri e libri,
pavimenti.
Ogni cosa sottosopra
insieme alla mia vita
che va per nuvole
e strapiombi
mentre salgo
di corsa le scale
fino al soppalco,
al tetto,
all’oblò del solaio.
Ci sarà,
ti domando,
un punto preciso
di aggancio,
o una piattaforma
da dove prendere il volo?
Basterà una tenda?
Un lenzuolo?
1
Intanto vedo che non vieni
per cena, che non ci sei
in mezzo alla piazza
tra i piccioni e la giostra,
che ti bagnerai fino alle ossa,
ti ammalerai adesso che piove
e hai dimenticato l’ombrello
accanto alla porta,
che non chiamerai
per avvisarmi
e non ci sarà più niente,
proprio più niente
da chiederti.
2
Mancano pochi minuti
a mezzanotte
e qualcuno bussa
piano alla porta.
Mi alzo dal divano barcollando
e domando: ‘chi è?’.
Silenzio dentro
a un altro silenzio
più crudele e profondo.
Faccio scorrere
la sbarra d’acciaio,
tolgo la catenella,
schiudo una minuscola fessura
e guardo verso destra,
a sinistra, in basso, in alto,
ma non c’è nessuno.
Buio nel pianerottolo,
buio nel dolore,
il mio, buio dappertutto,
mentre sento la tua voce
che bisbiglia da chissà dove:
‘sono ritornata a prenderti,
sei pronto?’
Lo sono da sempre
ti vorrei rispondere,
ma la commozione
mi stringe la gola,
non respiro,
e d’un tratto capisco
che non capirò
mai più niente.
Terza lettera
Rimanga soltanto tra noi
quello che oggi ti scrivo
dai confini del nulla.
Chi l’avrebbe mai detto
la prima volta
che ti ho vista
così piccola,
timida e spaventata
che ti sarebbe piaciuto
fino a questo punto
il rischio estremo
di restarmi accanto,
affacciarti ogni giorno
sul baratro,
sopportarmi quando
do di matto,
accompagnarmi
nella tenerezza,
nella gioia, nella malattia,
nel pianto
proteggendomi come
se fossi il figlio
che abbiamo desiderato
e mai avuto.
Insomma:
che ti amassi così tanto.