09 Aprile 2023

Un poeta di Assisi.
Tommaso Baronti: La parola cielo

web@mancinellidesign.com, Claudio Volpi
Un poeta di Assisi.<br>Tommaso Baronti: La parola cielo

Mercoledì 29 marzo abbiamo partecipato alla presentazione della raccolta di poesie ‘La parola cielo’ di Tommaso Baronti (1975), edita dalla casa editrice ali&no, preso l’Oratorio di Santa Chiarella in Assisi. Tommaso Baronti è alla sua prima pubblicazione di poesie, ma sicuramente questa è l’apparizione di un poeta vero.  Nella vita è un eccellente professore di materie letterarie presso il Liceo Scientifico di Assisi, quel tipo di professori che ormai cominciano ad essere molto rari, seri, preparati, esigenti, che con la loro autorevolezza riescono ancora ad educare e formare  in maniera positiva  i ragazzi, offrendogli  strumenti quanto mai impalpabili ma necessari per poter affrontare il futuro a testa alta. La presentazione è stata fatta dal Prof. Pierpaolo Peroni, che ha curato la prefazione al volume, le poesie sono state le lette da Pino Menzolini accompagnate dalla chitarra del musicista Mauro Mela. È stato un pomeriggio che ha donato ai presenti incanto e dolce umanità, non è poco in questi tempi di guerre così vicine e sofferenze varie che ci circondano da ogni parte. All’inizio sono poste tre citazioni con cui l’autore già ci indirizza nel suo mondo. “In alcuni è il cuore che invecchia per primo, in altri la mente. E certi sono vecchi da giovani: ma una tarda giovinezza è lunga giovinezza”, F. Nietzsche; la seconda, quella che preferiamo, “Mi basterebbe che tu fossi vivo, un uomo vivo col tuo cuore è un sogno”, A. Gatto, l’ultima “Sembra che gli avvenimenti siano più vasti dal momento in cui accadono e non vi possono essere contenuti tutti interi. Certo, traboccano nell’avvenire per la memoria che serbiamo, ma chiedono un posto anche al tempo che li precede”, M. Proust. Come scrive il Prof. Peroni, “Quella di Tommaso Baronti può essere immaginata come poesia di traiettorie…. Le liriche di questa silloge sembrano accomunate dalla tendenza a trattare epoche, luoghi, ricordi e figure come se le attraversassero itineranti. In maniera analoga, l’autore stesso risulta parte di questo movimento, perché ne rappresenta i punti estremi in qualità di oggetto e artefice dell’osservazione, in un frequente scambio di ruoli”. E ancora “La lingua stessa scarta dall’aulico al quotidiano, con successive ascese verso la rarità del sacro e dell’antico…”. Lo stile è eterogeneo, ci suggerisce l’autore, conformato ad una linea di tradizione, un ermetismo molto moderato, a noi vengono in mente tra gli altri per atmosfere e musicalità Attilio Bertolucci e Alfonso Gatto. Ma andiamo ora alle parole scritte dal poeta stesso ad introduzione delle poesie: “Cielo è parola quasi ubiquitaria nelle poesie, forse perché è l’unica in grado di contenere ed enumerare i trasalimenti e i tormenti del cuore in crescita, lungo un’esistenza che solo oggi ho il coraggio e la coscienza di riferire. Nominando il cielo tanto spesso, speravo almeno potesse curare le ferite e le assenze, ma ciò è avvenuto di rado, per gli effetti di una forza colpevole che esclude dalla leggerezza e dalla ascesa e mi incatena alla gravità di me stesso. Ma davanti a quello spazio, che è privato e pubblico, attrattivo e respingente, d’amore e di dolore, ho liberato il passato, senza potermene liberare definitivamente: quello che rimane, il residuo o, se si vuole, la memoria, è qui testimoniata. L’organizzazione della vita e della morte è l’infallibile provvidenza della foglia che, nata, già elabora in sé il momento del distacco; meditare sulla malattia, sbigottire per l’illusoria guarigione in un giorno di sole, quando si vorrebbe che il giallo, per miracolo, fosse di nuovo verde. Finalmente attraverso la natura, ho capito le ragioni della morte, e che la lezione di una foglia risiede nella sua caducità, suprema sintesi della salvezza. La medesima energia la fa vivere e poi morire; essa così non è di peso alle sue simili e rinascerà, uguale e insieme diversa, a primavera…”. Quasi intraprendendo una conoscenza iniziatica e segreta, Baronti, simile ai nativi australiani delle Vie dei Canti di Chatwin rinomina il suo mondo che è anche il nostro mondo, e nominandolo con linguaggio nitido, pulito, preciso, mai scontato, a volte carico di echi e risonanze, gli conferisce vita splendore e bellezza, persino nei momenti di dolore e smarrimento , che per noi sono i più belli e potenti. Con il suo linguaggio rende esistenti le cose, le rivela di nuovo come dovrebbero essere fin dall’inizio, nella loro luminosa innocenza. Con un occhio sempre rivolto al cielo ed alla sua luce, così importanti nella nostra vita, perché tutti i giorni fino alla fine  come scrive il Foscolo “ gli occhi dell’uom cercan morendo/ il Sole; e tutti l’ultimo sospiro/Mandano i petti alla fuggente luce”… Delicata e struggente la dedica:” Dedico questo libro a mia madre, perché non leggerà”.

XXXIII

La strada non la ricordo
se non per quella siepe vicino all’ingresso
dove sempre c’era silenzio.
L’odore del mosto a ogni stagione
eco di cento vendemmie.
La scala di porfido bruno
conduceva alla casa più grande
buia e fresca d’estate
con ampi camini e nobili umidità
ma la cucina era piena di luce.
Chi cantava Generale
e noi giocavamo in piscina
o nel campo dei girasoli
occhi fecondi trafitti con lance di giunco.
Talvolta anche io toccavo il piano
e per paura di svegliarti
il cuore andava un poco più mosso.
Negli occhi tristi eri sospeso
come i cavalli dei quadri alle pareti.
Eri per noi figli già fatto spirito
del conforto che ci schiudevi.
E io così ti conservo.

XXXVIII

Nelle sere d’agosto
le stelle apparse una ad una
fanno una scala che porta al tuo posto
dove io so che riposi ed ami.
Non ti rivedrò se non nel cuore
o in un sogno atteso a lungo
come un giudizio.
Sì ti rivedrò
figura in un disegno d’ortensie
al respiro della tenda smossa
che mi chiami per pranzo
da un altro giardino.

XXXIX

Presso di te prima di figli e nipoti
l’orologio il posacenere
l’uovo in alabastro di Volterra
ferme sotto al telecomando
le parole crociate folte d’inciampi.
Presso di te prima di te l’inerzia
di un impossibile mezzogiorno a letto.
Foglia troppo morta
perché in un giorno di vento
possa riaverti il cielo.

XL

È l’autunno dei raccolti
anche il cuore cade
come la foglia del ramo
fra olive verdi e nere
rombano fuochi arancione
il sole è un livido sbaffo
la terra ha rubato i colori
resta al cielo l’azzurro
per il frutto che non sa lasciare.

XLIII

Fugge giovinezza
come nel bosco fuggì l’astuta volpe.
Di rosso sgomento è il raggio che stinge
perduto nel viso o fra i capelli.
Acqua furtiva la vita
non lascia specchiare due volte Narciso
dileguando per aride dune.

XLIV

Mi coglierà la morte
come si coglie un fiore
come si strappa la malerba.
Sul crinale di una campagna a venire
in pena per le gemme
e per i rami viziati dal tempo.
Là nella casa sul poggio
la mia assenza sarà consumazione
un po’ di fumo nel camino.
Ma è certo che sarà di Febbraio
in un giorno teso alla luce
quando l’aria è un aspro incenso
e venti altissimi sfibrano i cirri.
Con gli occhi chiusi
come un frutto mi coglierà la morte.

LII

Fuma la valle a sera
s’intenerisce il passo alla tua vita inferma
e io non posso credere che alla luce
in cui noi ci vediamo e parliamo.

Se a chi t’ama
un respiro è voce che basta
io raccolgo ogni parola come pietra preziosa
Tommaso è la più bella.

Schiuso il recinto del cuore
sei nella camera
in cui non potevo mai entrare.

LIII

Come se gli uccelli del bosco
fossero scoperti a nascondino
Zefiro resta
nel cielo azzurro incarnato

è tempo che l’aria in allocuzione
riprenda i suoi fischi d’argento
tu nella pallida stanza a morire eri svelta
eri opera al grezzo
mancava un pezzo uno strumento
ed io non ero

mangiavi qualcosa di verde in ospedale
come verde è oggi la Pasqua
la cena svogliata
il cibo fatto a pezzettini nella penombra
dato alle tue amiche e a me

sei morta lunedì
io resurrezione non ho avuto
aspetto ancora dentro
intanto
c’è un’urna di quasi quattro chili.

LV

Ecco gli ippocastani diresti
passeggiando nel viale
avresti raccolto le castagne riempite le mensole
e pure le tasche per la tua salute

ma se la luce è ancora forte
voglio lasciare un libro come facevi
aperto e capovolto per tenere il segno.

LVII

Il tuo destino l’ho compreso sul terrazzo
dove guardavi le rondini partire
l’invidia di un viaggio
era una lettera tornata indietro al pensiero
il viso dettato al cielo deserto.

Claudio Volpi

Nato ad Assisi, dove vive e lavora. Laureato in Lettere Moderne, si occupa di Arte e Antiquariato, ha una Galleria D’Arte nel centro storico della città. Dagli anni ottanta ha pubblicato diverse raccolte di poesie, l’ultima quest’anno con il volume “Voci Versate”, Casa Editrice Pagine Roma.

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