«Francesco, va’, ripara la mia casa, che, come vedi, è tutta in rovina». Con queste parole, rivolte a un giovane di Assisi da un Crocifisso esposto nella chiesa di San Damiano alle porte della città umbra, fra Tommaso da Celano fa iniziare una delle più straordinarie avventure del medioevo cristiano. Il giovane si chiamava Giovanni detto Francesco e era figlio di un ricco mercante di stoffe. Prese alla lettera l’esortazione, abbandonò la casa e la professione paterna e si dedicò alla ricostruzione della chiesa in rovina. Da mercante si fece muratore, dalle stoffe passò alle pietre. Una volta ultimato il restauro di San Damiano, Francesco passò a una seconda chiesa nei pressi della città. Restaurata anche questa, passò ad una terza chiesa intitolata alla Madonna della Porziuncola, posta al centro della valle spoletana. Ben presto il suo comportamento e l’abito da penitente che indossava attirò l’attenzione di un gruppo di giovani di Assisi, che cominciarono ad aiutarlo nel lavoro. Francesco si avvide del rischio di trasformarsi in un imprenditore edile, smise di fare il muratore e diventò pescatore di uomini. Molti anni fa, raccogliendo materiale destinato a un libro sulla originaria decorazione della Porziuncola, m’imbattei in un brano della Vita I di Tommaso da Celano nel quale Francesco era presentato in un’occupazione apparentemente insolita, incomprensibile agli stessi confratelli: raccogliere a terra, in casa o per strada, qualsivoglia scritto parlasse di cose divine o umane, persino gli scritti dei pagani, e riporlo in un luogo decoroso, nel timore che vi si trovasse il nome del Signore o qualcosa che lo riguardasse. Naturalmente questo brano era stato più volte commentato da studiosi di argomenti francescani, ma i più lo avevano collegato a una presunta disposizione di Francesco a conservare in archivio le carte dell’Ordine. La spiegazione poteva avere una sua plausibilità, se oggetto di tanta attenzione fossero stati i soli libri sacri o civili o gli atti documentari: ma come era possibile che i preziosi codici o i documenti ufficiali fossero abbandonati a terra in casa e addirittura in strada? E soprattutto: quale tipo di scritto pagano Francesco poteva trovare in terra? Dal mio particolare punto di vista s’imponeva una diversa soluzione al problema: piuttosto che fogli volanti di codici smembrati, gli scritti dei pagani erano probabilmente lapidi con epigrafi antiche. Anche gli scritti di cose divine o umane raccolti da Francesco erano probabilmente pietre scolpite con simboli cristiani, come croci o emblemi eucaristici. Le città e le campagne umbre erano piene di edifici pagani in rovina, templi, mura, terme, monumenti funebri, archi, circhi, teatri; ma anche chiese paleocristiane, chiostri abbandonati, ruderi di castelli, dai quali piovevano a terra miriadi di pietre – «sunt lacrimae rerum», è un verso di Virgilio: sono le lacrime delle cose – spesso decorate da scritte o con simboli o con figure pagane o cristiane. Essendo molto abbondanti e a buon mercato, le pietre erano ricercate come materiale di spoglio, da riutilizzare nella costruzione di nuove chiese o edifici civili o privati. Le muraglie di San Damiano e della Porziuncola, due luoghi legati alla memoria degli anni di formazione di Francesco, mostrano ancor oggi numerose pietre di riuso, replicando una situazione diffusa nel tardo medioevo, quando era consuetudine inserire nelle mura delle nuove costruzioni marmi ornati da frammenti scultorei pagani. Ma quello che potrebbe sembrare un comportamento normale in un costruttore di cattedrali, diventa difficile capire per un uomo di nome Francesco, se non fosse egli stesso a spiegarcene la ragione. Per giustificare questa umana debolezza, che lo spingeva a raccogliere da terra le pietre lavorate dalla mano dell’uomo, era solito dire che le lettere incise dai pagani nella pietra potevano formare il nome del Signore; e se cantavano le lodi al Creatore, anch’esse erano degne di ammirazione. Insieme al sole, la luna e le stelle.