Ho trascorso la mia prima infanzia in località Santa Croce di Cannara[9], con mia madre insegnante del luogo e con le mie sorelle maggiori Maria e Ismene, quando nei periodi di vacanza tornavano dal Collegio delle Suore di Sant’Andrea[10]; o da nonna Sestina, per trascorrerle in famiglia. Papà insegnava in altra sede lontana, e lo vedevo di tanto in tanto. Non avevo amici della mia età, non legavo con i ragazzini che frequentavano la scuola: essi arrivavano al mattino quando io dormivo e se ne andavano in fretta alla fine delle lezioni. Persone, amici con i quali sentivo di star veramente bene erano i grandi, i contadini del luogo, specialmente con due famiglie: quella del Roscio e la famiglia Bartoccio. Tutti personaggi nati 100 anni fa e forse più. Personaggi già vecchi, adulti, giovani maturi in quei tempi degli anni ‘20. Rivedo i loro volti, solcati da rughe profonde dei più anziani, tutti abbronzati dal sole e dai venti. Li rivedo sorridenti, ma profondamente segnati dalla dura vita contadina d’allora.
LA FAMIGLIA DEL “ROSCIO” E QUELLA DEI ”BARTOCCIO”
Ricordo i loro nomi, che chiamerei biblici: Remigio, Benigno (lo chiamavamo Migno). Erano due fratelli di un aspetto particolare come figure, esteticamente brutti ma piacevoli a guardarsi. Vestivano con camiciotti turchini, pantaloni di grezzo cotone; di media statura, con lunghi baffi e la voce roca. “Buoni come il pane”, usando un detto di antica data. Migno vedovo, con tre figli, un maschio di nome Dario e due femmine di nome Pia ed Erminia. Remigio sposato con Oliva: avevano solo una figlia di nome Cecilia (detta Ciciola), giovane molto bella di una quindicina d’anni, amica delle mie sorelle, in particolare di Maria. Era la mia amorosa, dicevo che da grande l’avrei sposata, doveva aspettarmi. Queste erano le due famiglie che vivevano unite nella stessa casa “del Roscio”, soprannome che derivava dal colore dei capelli del babbo di Benigno e Remigio. Famiglie ritenute benestanti, come quella dei Bartoccio perché conducevano in proprio i loro poderi. Pochi ettari di terreno, per quei tempi essere proprietari del fondo significava non avere il padrone. La famiglia Bartoccio, con la quale avevo maggiori contatti in quanto la loro casa era vicinissima alla scuola-abitazione, era formata da Geremia, sua moglie Concetta, da due figli maschi Nello e Mario e da due femmine Mizzi e Olimpia (detta Pimpa). Olimpia sposò Pasqualino (il pollaiolo), uno sfaticato secondo il giudizio di Geremia. Ricordo questo matrimonio per i confetti colorati di quei tempi, che mangiai in abbondanza raccogliendoli sotto il tavolo, confetti di “gesso” che mi procurarono per più giorni forti dolori di pancia. Nonno Geremia e nonna Concetta, così li chiamavo per il bene ed attaccamento che mi dimostravano e che io ricambiavo con tanta spontaneità e affetto. Spessissimo restavo tutto il giorno con loro, mangiavo come se fossi stato un componente della famiglia, un vero nipotino. Si consumavano pasti semplici, a pranzo: minestre con il battuto, frascarelli, pancotto, spessissimo i legumi di tutti i tipi: ceci, cicerchie, fave, fagioli. La sera: panzanella, pomodori, insalata, che con ordine quasi cadenzato attingevamo da due grandi piatti di spesso coccio smaltato. disposti uno a capo e uno in fondo al tavolo affinché tutti ci arrivassimo. La domenica pastasciutta, acqua e farina, che tutti gustavamo con evidente, gioioso appetito. Solo in casa di nonno Geremia mangiavo con insolito appetito qualsiasi piatto mi venisse presentato. In casa mia mangiavo pochissimo. Trovato tutte le scuse per rifiutare quello che mi si proponeva, procurando la disperazione di mia madre che era costretta a spedirmi in casa Bartoccio. Al pranzo domenicale, in casa dei nonni acquisiti, alla pasta seguiva il giro di nonna Concetta con il piatto della carne: secondo costituito da pollo, o oca o coniglio. Nonna girava intorno al tavolo e deponeva nel piatto dove si era mangiata la pasta un pezzetto di pollo o oca o coniglio. Al passaggio della distribuzione della carne, i grandi assumevano una posizione strana con il capo, lo tenevano un pochino abbassato, per evitare di stimare la differenza della propria porzione con gli altri. Solo nonno Geremia seguiva il giro di nonna Concetta, gli occhi misuravano, pesavano le porzioni. Approvava con la testa le giuste differenze tra i più grandi e i più piccoli, fra coloro che faticavano di più e gli addetti alle faccende leggere. Spesso dormivo con nonno Geremia e nonna Concetta. La notte, quando ci si muoveva, si udiva il forte cicaleccio del saccone ripieno di foglie di granoturco; udivo il russare assordante di nonno e nonna, due suoni paragonabili alla voce dell’orco. L’orco chiamava e l’orca sollecita rispondeva. Il sonno di quell’età alla fine metteva un giusto rimedio a quei disturbi.
LA VITA DEI CAMPI
A chi mi domandava: «Enzino che vuoi fare da grande?», immancabilmente rispondevo: «il conta-dino». Seguivo il nonno in tutte le ore del giorno. Nella stalla delle vacche, dei suini, nell’ovile che ospitava solo due pecore, in cantina. Con nonna nel pollaio a raccogliere le uova e a riempirmi di pidocchi pollini. Nei campi durante le stagioni buone. In autunno per la vendemmia – nel canale a pigiare i grappoli d’uva – bere il mosto, intingere le fette del pane nel tino. In primavera per il riordino dei dissesti procurati dalla cattiva stagione. Il rientro dai campi sul carro trainato dai buoi, con il compito di toccarli con il frustino. Lo facevo con autorità sul dorso dei pacifici, pazienti buoi. La stagione estiva la più intensa. Assistevo alla fatica manuale della mietitura e successiva battitura, associandomi con partecipazione e gioia quando il raccolto era abbondante. Odiavo con loro la stagione avversa. Odiavo la pioggia quando non era desiderata, la benedicevo quando arrivava dopo una lunga attesa. Sempre in odio la grandine. La nemica dei miei amici. Vivevo la loro ansia meteorologica di sempre. Il tempo, le stagioni non li rendevano mai soddisfatti. Il sole, la pioggia, secondo i contadini non arrivano mai al momento giusto. Il freddo e il caldo ugualmente. Avrei voluto io avere la possibilità di gestire le stagioni per vederli soddisfatti, tanto era l’attaccamento con loro. Fare colazione, pranzare nei campi intorno ad una grezza tovaglia candida, sentendo dire «chi vuol pane sel fietta», segno di abbondanza e gioia. I mille profumi della natura, la fragranza del pane e la genuinità dei cibi, in quelle particolari occasioni della vendemmia e della mietitura mettevano in noi, nei nostri cuori, tanta felicità e allegria. Il canto “a recchia”, che di tanto in tanto si udiva nelle ore di lavoro, cessava nel momento del pasto. Era sostituito da battute e sfottimenti bonari rivolti verso coloro che avevano nel lavoro battuto la fiacca.
[9] Santa Croce è il toponimo che si riferisce a un gruppo di case sparse situato nel Comune di Cannara, lungo la strada che collega questo a Bettona ai piedi delle colline che bordeggiano da questo lato la valle umbra.
[10] Le due giovani erano state integrate in un collegio, retto da religiose, che si trovava allora presso il Monastero di S. Andrea situato tra i vicoli di San Giacomo, nei pressi della Chiesetta di S. Margherita.