Quando ci trovavamo in tanti si organizzava il gioco dello “scaricabotto”. Venivano formate due squadre di quattro o cinque elementi. La conta stabiliva la squadra che doveva mettersi sotto. L’altra squadra iniziava i salti.
Gli elementi destinati a star sotto dovevano piegarsi in avanti, uno dietro l’altro, in fila come i vagoni del treno; un elemento restava in piedi appoggiandosi al muro, con il viso in avanti, facendo da cuscino ai compagni piegati. A questo punto aveva inizio il gioco. Il primo dei saltatori spiccava il salto cercando di superare i primi elementi e arrivare a cavalcioni il più avanti possibile, meglio se a contatto con il ragazzo in piedi, allo scopo di lasciare sufficiente spazio ai compagni che dovevano seguirlo.
L’ultimo saltatore, se nessuno con i piedi aveva toccato terra, velocemente, tra i lamenti, le grida («avete toccato!») di coloro che stavano sotto, diceva: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, setto, otto, scaricabotto. Si scendeva di colpo tutti insieme, mentre gli altri si drizzavano scrollandosi frettolosi il peso, creando un groviglio di corpi, di braccia e gambe indicibile. L’epilogo dello scaricabotto era il divertimento più apprezzato. Quando a fatica, con strenue lotte, ci eravamo raccapezzati, districati, messi in piedi liberi, erano sonore risate a non finire.
Questi erano i giochi praticati in quei tempi nel borgo. Li ho descritti per far conoscere ai nipoti e possibilmente ai pronipoti come si divertiva da ragazzino nonno Enzo.
Non ho conosciuto molti giocattoli, l’assortimento d’allora non dava possibilità di scelte, gli esistenti non mi attiravano: fuciletti di legno, trombette di cartone pressato, macchine di latta, carrettini, cavallini che si muovevano se tirati da un cordino, non mi divertivano. Meglio i giochi che facevo all’aperto con gli amici.