26 Febbraio 2025

§10 – Giocando a “Totero” e a “Battimuro”

Enzo Boccacci
§10 – Giocando a “Totero” e a “Battimuro”

Il gioco del “totero” si praticava usufruendo di nove buchette, ricavate sempre su piazzale in terra battura, affilate a tre a tre, una sotto l’altra, a uguale distanza, formando un quadrato con lato di non più di m. 1,50.
La buca di centro era il “billo”. Le buchette in alto, in basso e ai lati erano i “toteri”, leggermente più piccoli del “billo”. Le regole erano le stesse del gioco del billo. La differenza consisteva in questo: colui che faceva totero riprendeva la posta, se nei tiri successivi imbucava altri toteri guadagnava altre poste. Il giocatore che centrava il billo prendeva tutto.
In due piccole piazze di Cannara, quella di San Matteo e la piazzetta di Giosuè, ci radunavamo per giocare a “battimuro”, sempre a bottoni. Per battere il muro si adoperavano le bottelle: non avevano rimbalzi regolari, schizzavano via da tutte le parti. Era difficile far fermare la propria bottella vicino a quella dell’avversario. Per aver partita vinta, occorreva toccare le due bottelle con il palmo della mano.

A CACCIA DI BOTTONI

Quando restavo “pulito”, finita la scorta di bottoni, mi mettevo a guardare gli altri ragazzini giocare, pensando un possibile immediato rifornimento. Se disponevo di soldini potevo con facilità acquistarli dagli amici. Erano bottoni di tutti i tipi, vecchi, sudici, pieni di terra. Con quattro soldi se ne compravano parecchi, moltissimi con mezza lira. I soldi pochissime volte c’erano, disporre di mezza lira non era cosa facile. Allora cercavo di rimediare i bottoni in casa.
Una volta mi attaccai alle federe staccando tutti i bottoni, benché consapevole che quelli di osso bianco sul nostro mercato valevano poco. C’era anche tra noi una precisa valutazione, una specie di borsa. Il bottone nuovo ne valeva cinque vecchi, una bottella, dieci. Questi erano i valori di base, per bottoni particolari si cercava di speculare per averne di più in cambio.
Il giorno che mamma e la donna erano impegnate a cambiare federe e lenzuola, ero in casa; sentii mia madre dire con voce alterata: «non ne ha salvate nemmeno una, da tutte le ha staccate quel lazzarone». Capii. Mi sentii chiamare: «Enzo, vieni qui». A quell’invito mi precipitai per le scale, fuggii in strada; non sfuggii alla lezione, che fu rimandata solo di alcune ore.
Altro incosciente, incomprensibile rifornimento fu quando il sarto Pucciarini di Perugia, sarto rinomato dal quale papà si serviva, riconsegnò un vestito di velluto marrone a coste, molto alla moda in quegli anni: calzoni alla “prosciutta”, giacca alla “cacciatora”. C’erano bottoni e bottelle da tutte le parti in gran numero, bottoni che ebbero il potere di folgorarmi; non ci pensai su, presi le forbici e li staccai tutti, ma con i bottoni malauguratamente tagliai anche qualche pezzettino di stoffa. La domenica mattina papà, nel prendere il vestito nuovo dal “visavì”, si accorse del danno. Apriti cielo! S’inquietò tanto da sentirsi male, mentre accorato diceva: «È da buttare, è da buttare, più di uno stipendio mi è costato!».
Il malessere passò alla svelta e arrivarono le botte. Le presi stoicamente: in tasca avevo un cospicuo numero di bottoni, la cassettina di riserva piena. Infatti il cambio dei nuovi con i vecchi aveva ben fruttato.

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