Spopolamento, disuguaglianze, territori dimenticati: ma tra nuove fratture e vecchie sfide, si può ancora costruire una città giusta, connessa e vivibile.
Oggi, chi vive ad Assisi fuori dalla città storica sa bene cosa significa sentirsi ai margini: trasporti insufficienti, spazi pubblici carenti, servizi che si allontanano, sempre meno case accessibili[1]. Mentre la città storica si trasforma in vetrina, il resto del territorio perde centralità e peso politico.
La città dentro le mura e i centri della piana sembrano due mondi separati, legati da un filo sempre più sottile. Ma anche le fratture più profonde, se affrontate con visione e giustizia, possono diventare passaggi generativi. La storia ce lo insegna.
Durante la Rivoluzione Industriale, molte città inglesi crescevano in condizioni disastrose. Alcune, tuttavia, grazie anche alla pressione sociale e alla lungimiranza politica, iniziarono a investire in salute pubblica[2], compromessa per il deterioramento di beni comuni come l’acqua o l’aria. Chi si muoveva per primo attirava lavoratori, investimenti, stabilità. Le altre dovettero adeguarsi: una disuguaglianza iniziale si trasformò in motore di miglioramento collettivo.
Oggi come allora, siamo in piena trasformazione. Chi affitta un appartamento su una piattaforma digitale è una figura chiave della nuova economia urbana e deve chiedersi quali beni comuni sta consumando o ignorando[3]. In un mondo dove la tecnologia ridistribuisce potere, anche le responsabilità devono evolvere. In alcuni casi, anche dire di no all’uso di una piattaforma è una forma di partecipazione consapevole e responsabile, da esercitare prima che i gesti individuali, moltiplicati su larga scala, contribuiscano a generare fratture e disuguaglianze difficili da sanare.
C’è già chi, in queste pagine, ha iniziato a far emergere i segnali di nuove disuguaglianze, nate dall’intreccio tra vecchie politiche e nuove tecnologie. Queste disuguaglianze vanno sempre denunciate: per riconoscere le mancanze, per impedire che diventino strutturali[4]. Se tutto è lasciato al mercato, chi resta indietro non ha alcuna possibilità di recupero. Ma con istituzioni pubbliche capaci di pianificare per il bene comune, anche la concorrenza può diventare volano di progresso condiviso.
Angus Deaton, osservando le città inglesi in piena rivoluzione industriale, ha descritto questo meccanismo come “la grande fuga” dalla povertà e dalla deprivazione[5]. Un processo nato non da miracoli dall’alto, ma da comunità che si sono organizzate, da cittadini delle classi sociali più basse che hanno alzato la voce, da istituzioni che hanno saputo ascoltare e investire.
E ad Assisi? Anche qui il cambiamento è urgente. I giovani, i lavoratori del turismo e del commercio, i precari: una maggioranza silenziosa spesso costretta ad adattarsi o a partire. Lo spopolamento che viviamo[6] è il segnale che stiamo perdendo terreno sulla qualità della vita, nonostante un potenziale immenso. Nel comfort delle nostre case con giardino, forse non ci stiamo rendendo conto che Assisi sta diventando ogni giorno meno nostra, meno verde, con meno sapore.
Servono scelte coraggiose. Alcuni segnali delle passate consiliature vanno valorizzati, ma da soli non bastano. Dobbiamo tutti ambire a diventare la città più vivibile dell’Umbria, e per farlo serve un impegno collettivo. La “grande fuga” di Assisi non è verso l’altrove, ma via da un modello che frammenta e isola, per costruire invece una città che ricuce, che valorizza i legami, che restituisce centralità a tutto il territorio.
Progetti come il Parco della Piana[7] dimostrano che un modello alternativo è possibile. Infatti, il progetto non consiste solo in un’infrastruttura verde, ma di una visione di città fatta di connessioni tra luoghi oggi isolati, opportunità per le frazioni, vitalità negli spazi pubblici. Si tratta di restituire protagonismo a tutte le comunità, senza nostalgie o campanilismi.
Le frazioni, in questa prospettiva, non sono periferie da compensare ma nodi vitali di una città policentrica. Spazi dove far crescere il senso di comunità, sperimentare forme di partecipazione e sostenibilità.
La sfida non è solo urbanistica. È culturale, sociale, un esercizio di democrazia partecipativa. L’amministrazione ha l’onere di intrecciare istanze, competenze e istituzioni, anche attraverso strumenti esistenti, come ad esempio le consulte comunali. Ma serve uno scatto in avanti: ispirarsi a esperienze innovative come i Laboratorios Ciudadanos[8], capaci di costruire progettazione condivisa su scala territoriale. Per farlo occorre anche prevedere un coordinamento professionale ben sostenuto, magari grazie ai fondi europei.
La sfida oggi è ascoltare chi si sente solo e impotente davanti al mondo che cambia, nonché custodire un territorio che è vita, e programmare coerentemente con le istanze che emergono la grande fuga. L’alternativa, purtroppo, è una fuga: quella di chi se ne va da un territorio svuotato di opportunità, di legami, di bellezza. E non torna più.
La fuga sarà dura: dovrà attraversare muri di interessi contrapposti e abbattere i recinti culturali del “non c’è alternativa”. Servirà visione, responsabilità, una nuova fiducia nella politica come costruzione quotidiana del bene comune. I prossimi cinque anni saranno decisivi. Questa volta non basterà amministrare: servirà immaginare, includere, custodire e avviare processi. Perché una città vivibile e attrattiva non nasce da sola, non scende dall’alto, ma si costruisce insieme.
[1] L’accessibilità abitativa è minacciata dalla conversione turistica del patrimonio immobiliare, dal calo dell’edilizia residenziale pubblica e dalla scarsa regolazione degli affitti brevi.
[2] Riforme igienico-sanitarie, come acquedotti e fognature, furono possibili grazie a pressioni dal basso e a lungimiranza politica locale, come dimostrato da città come Manchester o Birmingham nel XIX secolo.
[3] Il riferimento è alla trasformazione delle abitazioni in alloggi turistici e all’impatto che questa scelta ha sull’equilibrio tra economia privata e qualità della vita collettiva. Un bene comune non è una proprietà privata né un servizio fornito dall’alto: è qualcosa che appartiene a tutti e funziona solo se curato da tutti. La vivibilità di una frazione, il paesaggio della piana, il silenzio dei sentieri, la vitalità degli spazi pubblici o l’identità del centro storico sono beni comuni: non si vendono e non si comprano, ma possono degradarsi se lasciati a logiche speculative o all’abbandono. Riconoscerli come beni comuni significa prendersene cura insieme — cittadini, istituzioni, imprese — perché sono proprio questi i beni che, una volta garantiti i bisogni essenziali, rendono la vita degna di essere vissuta.
[4] Le disuguaglianze “strutturali” sono quelle che si autoriproducono nel tempo. Contrastarle significa investire ad esempio in equità di accesso a servizi, mobilità, cultura e opportunità.
[5] Cfr. Angus Deaton, La grande fuga. Salute, ricchezza e le origini della disuguaglianza, Il Mulino, 2015.
[6] I dati ISTAT e regionali mostrano un saldo migratorio negativo dei giovani umbri, che spesso lasciano l’Umbria per motivi di studio o lavoro senza far ritorno.
[7] Il Parco della Piana, progetto collettivo proposto da Francesco Berni e altri urbanisti, immagina una infrastruttura pubblica multifunzionale in grado di connettere Assisi, Santa Maria e Bastia con percorsi verdi, mobilità dolce e spazi di aggregazione sociale. Per saperne di più: Berni F., a cura di, (2024) Il Parco della Piana di Assisi: un progetto di ecologia integrale, Assisi Mia, Assisi.
[8] I “Laboratorios Ciudadanos” sono pratiche sperimentate in Spagna e in altri paesi europei, che combinano partecipazione civica, innovazione sociale e progettazione istituzionale, coinvolgendo cittadini, tecnici, attivisti e amministratori in processi di co-decisione.