Guruji è il termine con cui molti praticanti chiamano il loro maestro di yoga. Ma il suo significato è qualcosa di profondo e innervato nella cultura indiana.
Mi ricordo ancora le parole del mio insegnate di ‘darshana’ दर्शन (filosofia indiana) nella piccola scuola di yoga che frequentavo a Mysore.
‘I had an important guru but not even his family knew his true nature. For five years I just listened to him without asking any questions!.
In effetti a molti indiani che ho incontrato piace spiegare senza essere interrotti.
Le domande sembrano infastidire. Specialmente quelle che faccio in certe circostanze.
Durante una lezione avevo chiesto, ad esempio, se fosse possibile concepire una verità assoluta e permanente (brahman) e l’unione con essa come una sorta di stato oggettivo. Questo perché spesso tale condizione viene descritta come esperienza comune a tanti detta ‘samadhi’. Considerando ciò, come non confondere questo stato con qualcosa di soggettivo o personale? Apriti cielo. L’impressione è sempre la stessa, meglio stare in silenzio senza interrompere.
La sostanza è che non esiste un vero dialogo alla pari tra interlocutori guardando la dinamica da una certa prospettiva.
Un’altra immagine che mi viene subito alla mente è nella grande shala che frequentavo appena arrivato, diretta da Saraswati, figlia di Pattabhi Jois. A fine lezione, molti praticanti si mettevano in fila per salutarla. Seduta sulla sua poltrona in legno, da cui recita le asana (posizione) da svolgere nella prima serie di ashtanga, dispensava sorrisi e frasi misurate.
Gli unici due studenti indiani della classe si fiondavano spesso a suoi piedi massaggiando la pianta e le dita con amore e devozione. Sembravano quasi in estasi.
Rimasi colpito da questa scena provando all’inizio un senso di rigetto. Attraverso le mie cornici culturali, vedevo quel gesto come qualcosa di servile ed eccessivamente superstizioso.
La reazione era stata fondamentalmente di rifiuto. Ma per capire e sintonizzarsi bisogna spogliarsi dei propri strumenti cognitivi per abbracciarne altri con umiltà. Così mi avvicinai ad una di loro per chiedere il motivo di quel gesto.
‘She is my guru. For me she is like my mother. I decided to follow her teachings for many years’.
Il rapporto che si sviluppa tra guru e discepolo è molto profondo poiché dal primo dipendono tempi, modalità e azioni connesse alla propria pratica spirituale e morale.
Il guru è qualcuno che ha fatto esperienze spirituali profonde. È colui che disperde l’oscurità indicandoti la strada da percorrere.
Un amore incondizionato lega il discepolo al suo maestro che per un estraneo come il sottoscritto può sembrare a volte una sorta di annullamento acritico delle proprie facoltà intellettive.
Questa dimensione assume caratteri con tinte ancora più accese quando riguarda praticanti occidentali.
Alcuni insegnanti sono venerati dai propri allievi che in cerca di se stessi trovano il loro riferimento nella pratica yoga e nel proprio guru. Anche questo è uno specchio della crisi identitaria e spirituale che sta attraversando da decenni il nostro continente europeo. Senza giudicare, mi chiedo quanto però questa sia ricerca di se stessi o affiliazione.
La differenza tra le due posizioni è sostanziale poiché, nel secondo caso, parliamo di palliativi compensatori per l’anima che sfociano spesso in posizioni acritiche ai limiti dello stereotipo.
Non si può accettare tutto.
Lo yoga è unione, passione, devozione ma anche un’industria redditizia.
Un mercato importante che muove migliaia di persone e capitali che vengono in India attratti dalla sua profonda spiritualità.
Ma allora quando sospendere il giudizio critico in favore di un approccio di maggiore apertura legato alla sfera emotiva?
Questa è la grande questione che mi arrovella.
Il pensiero critico e scientifico è un modo di ragionare che dà forza e vigore eppure, non sempre è lo strumento giusto per analizzare e comprendere le cose.
Tra queste due polarità mi muovo, osservando a volte con gli occhi di un bambino felice o di un adulto attento, quello che mi accade.
La gioia provata nel recitare un mantra incomprensibile in sanscrito godendo delle vibrazioni generate dalle tante voci che si fondano in una sola.
Lo stupore e il rigetto nel vedere scene di devozione verso altri essere umani assimilati quasi a divinità e salvatori.
Ma forse basta semplicemente godere della bellezza dello stare, oscillando leggero tra questi modi di intendere la vita e il suo mistero.