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Lavoro è una parola che giunge a noi dal latino laborem, transitando attraverso il normale sviluppo in italiano (nelle parole di tradizione popolare) di –b – in –v -, suono quest’ultimo sconosciuto al latino nella nostra accezione. Diversamente accade nei cosiddetti latinismi, parole di tradizione letteraria, dove –b – invece si mantiene (ad es. Laborioso). La voce latina richiama l’idea di qualcosa di duro, di pesante, di penoso, ed è suggestivo al riguardo ricordare che dietro all’italiano lavorare si nascondono il travagliare di alcuni dialetti del nord e il faticare di molti dialetti del sud. Ma se invece vogliamo guardare all’imminente domani con fiducia, come i cittadini romani al sorgere dell’eta augustea, possiamo ricordare i versi di Virgilio: Labor omnia vincit improbus et duris urgens in rebus egestas (‘Ogni difficoltà è vinta dall’assiduo lavoro, e dal bisogno che incalza nelle situazioni difficili’). Almeno speriamo.
di Carla Gambacorta
Quel che è certo è che il lavoro non manca di varietà. Autonomo, subordinato, a volte ben pagato, spesso mal retribuito o sfruttato. In ogni caso tempo di vita addomesticato. Per alcuni, forza liberatrice, emancipatrice. Per pochi, una scelta, ozio creativo. Per molti, travaglio.
Un dovere, un’inevitabile fatica, per la sopravvivenza propria e dei propri cari. E ancora: scientifico, alienante, liberato, manuale, collaborativo, competitivo, intellettuale. Di questi giorni: essenziale o superfluo, smart, tutelato o speculativo, diseguale, ingiusto, mal distribuito. Ad alcuni non fa conciliare il sonno, altri giurano d’esser nati apposta.
C’è chi ne fa una questione esistenziale e chi invece ne limita l’invadenza per poter filosofare. Riservato agli schiavi per buona parte della storia umana, in un giro d’orologio il lavoro è diventato pilastro costituente delle società occidentali, metro di giudizio e di condanna, fattore organizzativo e di stratificazione sociale. Il lavoro per l’uomo moderno filo-fordista è un tratto identitario primario; ciò che fa, a volte precede e spesso definisce ciò che è, come e con chi si relaziona. In alcuni posti questo è più vero che in altri. E allora, mentre ad un aperò in rive gauche a Parigi conversazioni s’interrompono sul nascere quando al “Tu fais-quoi dans la vie?” (di solito pronunciato appena dopo le presentazioni) la risposta non è soddisfacente, ad Assisi, un po’ come a La Habana, medici, idraulici, avvocati, giornalisti, camerieri, storici dell’arte cenano allo stesso tavolo. Parleranno male di qualcuno? Non c’è dubbio. Ma nel paese che si sente città, le nicchie esistono, ma son poche, isolate, e a maggio costrette comunque a mischiarsi col popolo.
Certo è che il lavoro ad Assisi non abbonda ed è stagionale, commerciale, turistomane, vulnerabile a vari tipi di crisi: pandemica, sistemica, geologica. Di fatti, sono lunghe le liste di chi si affida ai soldi del Cura Italia. Forse pochi anche per chi fino a qualche mese prima pagava altrettanto, a nero, i giovani in prova.
di Giacomo Buzzao
L’ascolto musicale
a cura di Dionisio Capuano
I Hate America – The Work [7″ singolo, 1981]
Smart working, flessibilità, globalizzazione. Nel vocabolario dell’avant band inglese sono sinonimi di vaselina. Nella loro musica la cognizione del dolore postfordista.