Le scuole speciali possono essere davvero speciali. L’I.C. Ciechi di Assisi lo è. Non a caso, seguendo l’imperioso entusiasmo di Antonella Brunacci, è partito per l’ennesima avventura dell’Erasmus (questa volta in Romania) – e se partecipare a un progetto del genere è una sfida per tutti, per una scuola speciale lo è molto di più. Prendere un aereo, autobus senza pedane, affrontare una scuola piena di scale senza ascensore e rampe, entrare in un museo che ha il montascale rotto – niente è facile per chi vive la carrozzina come una parte fondamentale del proprio corpo. Eppure, al momento della partenza, è bastato il sorriso di G. e della nonna che lo accompagna, per far dimenticare ogni paura. Si vola verso un’incognita, ma si vola. G. vola per la prima volta, e nei suoi occhi c’è la bellezza del mondo che si apre, in direzioni non scontate, ad altezze impossibili da prevedere fino al giorno prima. Cos’è la bellezza, se non questo – guardare per la prima volta. E G. può farlo, ora, in braccio alla nonna, attaccato all’oblò. E poi ci sono M. e A., che hanno già viaggiato tanto, ma si stupiscono ancora (la noia è la sovrastruttura di chi non è speciale). E hanno i loro tempi, di attenzione e di riposo, che non possono sempre coincidere con quelli di chi vive nella norma per la norma (e per questo si chiama “normale”). Bisogna imparare ad aspettare, ad ascoltare. Insomma, l’Erasmus di una scuola speciale è una sfida, ma non solo per chi ne fa parte. Lo è (e molto di più) per chi ne condivide l’esperienza. Una scuola speciale è pedagogica. Obbliga al confronto, grida che il re è nudo, e che la parola “inclusione” non è un termine del politically correct da esibire per sentirsi migliori (cioè appartenenti alle nuove norme, normalmente a posto con la propria coscienza normata), ma una realtà concretissima, che deve annullare ostacoli materiali e mentali nella quotidianità più banale (quella inevitabile). Ed è un regalo, perché insegna cosa possa rendere davvero paritaria la condizione di chi ha una disabilità, e perché, a chi ne voglia condividere l’esperienza fino in fondo, può lasciare in eredità strutture materiali (anche una semplice rampa di legno che prima non c’era) insieme a una mentalità non “normata” (il primo diritto è l’uguaglianza, ma va praticato – noi siamo le nostre azioni, non le nostre parole).
La gioia di G. ha creato un mondo intorno a lui – solidale, consapevole, entusiasta. Se devi ogni giorno inventarti il modo di superare una barriera, pur di non negare un sorriso che ha il senso di una vita, diventi un motore sociale e umano. E poi ci sono A. e M., che impongono la loro allegria, la loro timidezza, gli abbracci eccessivi mai scontati, la felicità pura di ballare e mangiare un gelato per il gusto assoluto di farlo. I ragazzi delle scuole “non speciali” (la Frate Francesco di Assisi, l’Orfini di Foligno, gli istituti superiori di Portogallo, Lituania, Romania) e i loro insegnanti cominciano a ruotare attorno a questa gioia. La carrozzina di G. viene trasportata ovunque, sollevata a mano da ragazzi e professori – persino fino in cima al castello di Vlad Dracula (i veri mostri sono le sfide perse per paura). Nei laboratori G., M. e A. sperimentano, suonano, compongono quadri di carte colorate. E diventano la componente leggera di ogni giornata, anche quando potrebbero essere elemento di ostacolo. Una scuola speciale dà più di quanto possa ricevere, anche quando riceve moltissimo.
La mancanza di strutture viene compensata dalla generosità – e questo è un buon insegnamento. Ma i diritti non possono essere compensati, neanche dall’amore. I diritti sono riconoscimento. E quando al ritorno ad Assisi ci si abbraccia, ci si dice, più o meno in silenzio, che se questa avventura è finita, il compito pedagogico della scuola dei ragazzi speciali deve continuare, con altri viaggi, altre esperienze, perché non può smettere di essere memoria vigile di un riconoscimento.